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Il disturbo post-traumatico da stress: un male che si cura con il supporto sociale

novembre 10, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

news_clip_image002Gli attacchi terroristici al World Trade Center e al Pentagono, lo tsunami nell’Oceano Indiano, il terremoto in Abruzzo, l’alluvione che ha colpito Messina, ma anche incidenti, guerre, violenze di ogni tipo, quelle a cui spesso assistiamo nelle nostre città, sono alcuni di quegli eventi che sono suscettibili di incidere sui soggetti che, sia direttamente che indirettamente, li vivono, portandoli a sviluppare quello che gli psicologi e gli psichiatri definiscono “Disturbo post-traumatico da stress”, (DPTS).

Se consideriamo il fatto che il più delle volte questi eventi, come nel caso di una catastrofe naturale, coinvolgono un numero consistente di individui, possiamo facilmente intuire quanto questa patologia sia importante e meriti attenzione da parte di tutti quanti, perché può produrre anche delle vaste ripercussioni sociali, e persino economiche.

Problema però poco valutato, soprattutto dai mezzi di informazione, che di solito focalizzano la loro attenzione sul fatto oggettivo, senza mettere in luce altri aspetti importanti, tra i quali questo genere di ricadute che si ripercuotono sugli individui.

Sì, proprio così, perché il terremoto devasta e passa, le città vengono ricostruite con immensi sforzi, ma le macerie3478971725_f95282471a permangono nel paesaggio desolato del cuore. E certe ferite, se non vengono curate, restano per sempre. Inoltre, quando questi traumi coinvolgono città intere, si tratta di ferite sociali collettive, si tratta di città non solo da ricostruire, ma anche da far risorgere, cioè da far tornare a vivere.

Ma qual è la cura?

Abbiamo rivolto alcune domande al dott. Samuel Occhi, psicologo (Diplomate, American Academy of Experts in Traumatic Stress).

Quando possiamo parlare di disturbo post-traumatico da stress?
“Il disturbo post-traumatico da stress (DTPS) si può generare quando una persona ha vissuto direttamente o indirettamente una vicenda altamente traumatica”.

Quali sono i soggetti più predisposti?
“Vista la poliedricità degli avvenimenti potenzialmente traumatici (catastrofi naturali, incidenti di traffico, rapine, violenze in genere, morte di una persona cara, ecc.), non possiamo parlare di una categoria di soggetti più esposta al rischio di incorrere in una sintomatologia post-traumatica. Nessuna persona è esente dal rischio di essere esposto ad un’esperienza traumatica, quale essa sia”.

Si tratta di un disturbo diffuso?
“La prevalenza di DPTS sulla popolazione generale può essere stimato intorno al 1-14% ed è quindi un disturbo abbastanza diffuso, al pari della depressione. Ovviamente bisogna tenere in considerazione diversi fattori, definiti “di rischio”, come, ad esempio, la vicinanza fisica all’avvenimento traumatico, che determina una maggiore propensione a sviluppare una patologia post-traumatica”.

Quali sono i sintomi che si manifestano con maggiore frequenza?
“In primo luogo, le vittime rivivono intensamente l’avvenimento traumatico sotto forma di immagini e di ricordi costanti che si manifestano in forma completamente involontaria, come nel caso di flashback ed incubi notturni. In secondo luogo, tali ricordi sono accompagnati da alterazioni fisiologiche, come aumento della frequenza cardiaca, sudorazione e aumento della respirazione. In terzo luogo, le vittime tendono ad evitare luoghi o situazioni associati al fatto traumatico, mostrando una risposta di allarme esagerata in proporzione allo stimolo, che si manifesta con difficoltà di concentrazione, irritabilità e, in particolare, con disturbi del sonno. Inoltre, in molte circostanze gli individui con disturbo post-traumatico da stress presentano un alto livello di rischio di suicidio”.

La terapia in cosa consiste?
La terapia di elezione per il DPTS è un trattamento farmacologico accompagnato da tecniche psicologiche, tra le quali la più efficace risulta essere l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing)“.

Quanto è determinante il supporto sociale nella guarigione del soggetto?
“Pur non essendoci dati scientifici che documentano l’effettiva importanza del supporto dei familiari o di amici, si può affermare che una forte componente di aiuto derivi dalla famiglia e dalla cerchia di persone che circondano la vittima. Il sostegno sociale può essere di tipo emotivo, pratico e cognitivo. In base al sostegno emotivo, la persona può continuare a sentirsi apprezzata, stimata ed accettata. In questo modo può gestire sia il senso di colpa per l’accaduto che la vergogna. Inoltre, generalmente la persona mantiene una buona autostima, che è necessaria per fronteggiare la situazione in modo efficace. Il sostegno pratico favorirebbe la riduzione dello stress che può insorgere in seguito a situazioni di disagio oggettivo. Infine, il supporto cognitivo è importante per aiutare la persona a mettere in atto i processi di assimilazione e accomodamento, che sono fondamentali per l’elaborazione degli stimoli traumatici. Si possono ricevere informazioni precise sull’evento, ridurre l’incertezza per il futuro oppure si possono cercare dei significati condivisi da attribuire alla situazione”.

1213096335m47gV2Ecco, dunque, cosa occorre: “significati condivisi”. “Significati” perché bisogna dare un senso anche a ciò che ne sembra privo, affinché diventi accettabile e possa così essere superato. “Condivisi” perché, in fondo, tutto ciò che è condiviso, distribuito, diventa più leggero e più sopportabile.

E forse il terremoto in Abruzzo, l’alluvione a Messina, non ci hanno mostrato solo tremende immagini di dolore e di morte, ma anche qualcosa di importante: la solidarietà che lega e tiene insieme le persone che hanno in comune una stessa tragedia.