Posts Tagged ‘Ministero della Giustizia’

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Don Luigi Sturzo: a cinquant’anni dalla morte ancora vivo il suo messaggio di fede

novembre 10, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

luigi_sturzoDal 2 al 4 ottobre si è svolto, tra Catania e Caltagirone, un importante convegno internazionale, organizzato in occasione del cinquantesimo anniversario della morte di don Luigi Sturzo, il sacerdote siciliano fondatore nel 1919 del partito popolare.

Il convegno, promosso dal Rinnovamento dello Spirito, ha visto la partecipazione di politici, economisti, nobel per la pace, studiosi, personalità del mondo ecclesiastico, tutti riuniti per ricordare il sacerdote siciliano e per riflettere sul suo messaggio etico ed il suo agire sociale.

Inoltre, il 4 ottobre, a Caltagirone, città natale di don Luigi, sono stati inaugurati la “Casa Museo Sturzo” e il polo di eccellenza dedicato al sacerdote, centro che ospita ex-detenuti impegnati in un programma di rieducazione e reinserimento in campo lavorativo, in convenzione con il Ministero della Giustizia.

Personaggio complesso e versatile, Sturzo è stato prete, teorico, amministratore, segretario di partito, senatore a vita e autore di numerose opere di carattere politico, morale, storico e teologico, ma la sua grandezza risiede soprattutto nell’avere tracciato per primo un cammino di fede nella polis, intesa come centro di vita politica e sociale, introducendo la spiritualità nella mondanità, la moralità cristiana nella politica.

E’ di questa figura-chiave della storia italiana e della Chiesa che l’on.le Giovanni Nucera ha parlato ai giovani popolari liberali nel Pdl, in occasione di questo importante anniversario.

“Don Luigi Sturzo rappresenta la coerenza tra i comportamenti privati e quelli pubblici, qualcosa che oggi, purtroppo, sembra mancare nel mondo della politica”, sono state queste le parole del consigliere regionale, che ritiene inoltre che l’uomo politico, nel suo agire al servizio della comunità, non possa prescindere dagli insegnamenti della moralità cristiana e dai suoi valori di umanità e fratellanza.

“Una figura antica ma più che mai attuale per il messaggio di fede e la lezione morale che trasmette”, ha continuato l’on.le Nucera sempre a proposito del sacerdote siciliano.

Secondo Sturzo, una società senza Dio è odio e morte, per questo non bisogna distinguere la politica dalla morale cristiana. La politica è un bene, è doverosa partecipazione del cittadino alla vita del paese; il fare politica, invece, è un atto di amore per la collettività.

E’ questo il principio affermato da Sturzo: “Si può essere di diverso partito, di diverso sentire, anche sostenere le proprie tesi sul terreno politico o economico, e pure amarsi reciprocamente. Perché l’amore è giustizia ed equità, è anche uguaglianza, è anche libertà, è rispetto degli altrui diritti, è esercizio del proprio dovere, è tolleranza, è sacrificio. Tutto ciò è la sintesi della vita sociale, è la forza morale della propria abnegazione, è l’affermazione dell’interesse generale sugli interessi particolari. Lo spirito cristiano entri nella politica. Si inizi dunque la crociata dell’amore nella politica. La vita pubblica ha per base la giustizia, senza di essa non si regge nessuno Stato e nessuna organizzazione politico-morale”.

L’on.le Nucera ha infine ricordato ai giovani un pensiero di don Luigi Sturzo, tratto da una delle sue opere più celebri, “La Vita vera”, dove il sacerdote sostiene che sia necessario rinascere nello spirito e riporta a questo proposito la frase che Gesù disse a Nicodemo: “In verità, in verità vi dico che se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio”.

E’ questa rinascita, intesa come rinnovamento morale, che auspica l’on.le Nucera per la nostra Calabria e, in generale, per l’intera classe politica nazionale.

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Il ruolo del Garante dei diritti dei detenuti: un ponte di speranza tra il sistema penitenziario e la società civile

novembre 8, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

chiaviNon tutti ancora sanno che, per fornire una garanzia ulteriore alla tutela dei diritti dei detenuti, da circa due anni è stata istituita a livello territoriale una figura nuova, ossia quella del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

Il Comune di Reggio Calabria ha avuto l’intuizione, “segno di grande cultura giuridica e di profonda sensibilità sociale”, secondo l’avv. Agostino M. Siviglia, consulente giuridico dell’Ufficio del Garante di Reggio Calabria, con deliberazione del Consiglio Comunale n.46 del 1 agosto del 2006, di creare questa istituzione e ha nominato in qualità di Garante il dott. Giuseppe Tuccio, che, per la sua lunga e ricca esperienza giuridica, possiede la capacità di comprendere le numerose sfaccettature dell’animo umano, qualità indispensabile per lo svolgimento di questo ruolo.

Il Garante vuole essere un tramite tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile per vincere il pregiudizio e per dare ai detenuti la speranza, ossia “l’opportunità di costruirsi una vita nuova”. Al Garante, che può entrare in carcere senza alcuna autorizzazione, possono rivolgersi sia i detenuti sia coloro che ritengono che ci sia stata una violazione dei diritti dei detenuti, compresi i familiari.

L’Uffucio del Garante opera all’interno del sistema penitenziario, dove ha un proprio ufficio permanente. Il suo compito è quello di garantire che l’esecuzione penale assicuri l’accesso ai diritti costituzionali. Tuttavia, il suo ruolo non si esaurisce una volta riacquistata la libertà, anche perché forse è proprio uscendo dal carcere che il detenuto necessita di maggiore sostegno, affinché il suo reinserimento sociale possa avvenire effettivamente e senza traumi. Al fine di garantire questo tipo di assistenza, è stata creata, con il patto stipulato il 22 maggio del 2008 tra il Ministero della Giustizia, il Comune e la Provincia di Reggio Calabria, la Prefettura e l’Ufficio del Garante, l’Agenzia per l’inclusione sociale, che si occupa in modo particolare del passaggio dalla detenzione al reinserimento post-penitenziario di coloro che appartengono alle fasce deboli, come i tossicodipendenti e i ragazzi, che possono essere facilmente deviati da un ambiente, come quello carcerario, che spesso, invece di favorire l’educazione alla legalità, consolida una scelta criminale come unica opportunità di riscatto.

“Il Garante si occupa di questo: di non far perdere la speranza. Fa colloqui con chiunque chieda di essere ascoltato,carcere1 cercando un dialogo al di là dei confini del circuito penale, favorendo il rientro del detenuto nel tessuto sociale attraverso la speranza di lavorare e la giustizia riparativa, cioè l’incontro tra colui che ha commesso il reato e la vittima, al fine di fare percepire al detenuto la sua condizione non come un fardello, bensì come una risorsa per il fututo”.

L’Ufficio del Garante sta riallestendo la biblioteca all’interno del carcere di San Pietro, perché “l’emancipazione culturale può trasformarsi anche in un’emancipazione dal sistema deviante”.

Anche l’avv. Siviglia, specializzato in “Criminalità, devianza e sistema penitenziario”, parla di “situazione implosiva”, nel descrivere lo stato in cui versa il carcere di San Pietro. “La quasi totalità dell’edificio non è a norma, dunque è al di fuori della legalità, come ha sottolineato il Ministro della Giustizia, il quale ha parlato della incostituzionalità del sistema penitenziario italiano, quello reggino non fa eccezione”.

A proposito dell’ultima visita, avvenuta sabato 7 novembre, l’avvocato riferisce: “Abbiamo trovato miglioramenti nella ristrutturazione dei bagni. Ma, in generale, la casa circondariale di Reggio Calabria soffre il fatto che la struttura è molto vecchia, risalendo al 1920-’22. Questo ha ricadute negative sul trattamento penitenziario”.

Il carcere di San Pietro ha una capienza di 160 detenuti, una tollerabilità intorno ai 200 e ne ospita oltre 300. Il sovraffollamento, ci spiega Siviglia, ostacola anche la possibilità di realizzare un trattamento individualizzato, fondamentale nella rieducazione.

Ma cosa risulta indispensabile nel recupero? E’ importante trasmettere ai detenuti la coscienza di essere cittadini. Devono percepirsi come cittadini, in tal modo sentiranno anche che, scontato il loro debito, ci sarà una città pronta ad accoglierli quando sceglieranno una strada diversa, all’interno della legalità”.

thumbL’avvocato ha lodato il lavoro svolto dalla polizia penitenziaria del carcere di San Pietro, che cerca di sopperire alla mancanza di personale anche attraverso doppi turni. “Gli uomini che lavorano all’interno del carcere, la direttrice, il garante, cercano con grandi sforzi -afferma Siviglia- di sensibilizzare gli organi competenti e la società civile sulle condizioni del sistema penitenziario e sull’esigenza di strutturare un sistema più umano, perché questo avrà dei risvolti positivi anche per la società in termini di sicurezza e di prevenzione”. A questo proposito Siviglia osserva che il carcere si trova ovunque, all’interno degli Stati democratici, nel cuore della città, così è a Reggio Calabria, a Milano, a Roma, proprio perché “la città deve avere la coscienza di farsi carico di questo problema”.

Ma questo basta per comprendere le difficoltà dei detenuti, che forse non escono fuori mai dalla gabbia stretta del pregiudizio né scontano mai la condanna sociale? Siviglia appare scettico su questo punto. Scuote la testa ed afferma: “Calamandrei dice una cosa vera, ovvero che bisogna esserci stati per comprendere. Lo penso anch’io. Certe condizioni bisogna viverle per capirle fino in fondo, o almeno vederle con i propri occhi, per riuscire a coglierne parte del significato. Bisogna sentire l’aria asfittica che si respira all’interno delle carceri per comprendere davvero”. Continua Siviglia: “Lo Stato deve garantire un sistema legale, perché, se non si garantisce la legalità, si è poi poco credibili nel chiederla. E’ come se noi così offrissimo il fianco alla criminalità, suscitando una reazione di rabbia che altrimenti non ci sarebbe”.

Parla di rabbia Siviglia, quella che esplode dentro ai giovani che si sentono traditi, soli, abbandonati da una societàcarcere che pretende e che non dà, che punisce e non offre alternative, che condanna e non perdona. Esiste forse un unico modo per placarla, anzi per curare questa ferita. La medicina si chiama “fiducia”. Ne è convinto l’avvocato, secondo il quale, dare fiducia ai giovani è un modo per responsabilizzarli, con la consapevolezza che poi è il ragazzo l’unico vero protagonista. Le istituzioni hanno il dovere di offrire la possibilità di scegliere, devono mettere al centro l’uomo, portandolo a decidere da solo per il bene senza lasciarlo alla deriva”.

Secondo Siviglia, chi sbaglia rinuncia alla parte migliore di sé. “Vite sospese”, così definisce i giovani detenuti, “a volte incattiviti perché la risposta punitiva non è credibile, vite in attesa di tornare a delinquere con più rabbia e spesso con più pericolosità di prima”.

Ecco che lo Stato fallisce il suo compito: non ha sostenuto chi ne avrebbe avuto più bisogno.

Afferma Siviglia: La forza della democrazia non risiede nella sua capacità di imprigionare, ma di redimere, di restituire alla società persone nuove. Un livello alto di democrazia comporterà un livello basso di detenuti”.

Ma si può morire di carcere? L’avvocato non ha dubbi: “Si, si può morire di carcere. Il suicidio può essere il gesto estremo al quale conduce la vita all’interno di un sistema penitenziario disumano. Si muore perché non ci sono prospettive, o perché ci si sente falliti, o per il lacerante senso di colpa, o perché ci si sente inadeguati. Si muore persino perché si ha paura di uscire fuori e di non essere accettati”.

Chiediamo infine all’avvocato un consiglio da dare ai detenuti. A noi sembra essere valido per tutti: “Consiglio,speranza soprattutto ai giovani detenuti, di puntare sulla propria fragilità, perché soltanto lì, nella propria coscienza di sé, si trova la forza di non avere più paura”.

Ecco cosa serve dunque: il coraggio di non avere paura. Spesso ciò che consideriamo un handicap può rappresentare il nostro punto di forza. I nostri errori, i nostri difetti, le nostre debolezze, ciò che rifiutiamo di noi stessi, costituiscono degli aspetti da valorizzare, da mostrare agli altri, delle occasioni di miglioramento di noi stessi e della nostra vita.

Anche l’esperienza negativa della detenzione può essere un’opportunità quando porta il detenuto a prendere coscienza del reato e a scegliere un cammino diverso dalla devianza. Ma, affinché ciò si realizzi, risultano indispensabili il ruolo dello Stato e quello della società civile, in particolare, quest’ultima deve diventare, così come afferma Siviglia, “la famiglia del ragazzo che delinque, una famiglia capace di accoglierlo, per non privarci della nostra parte migliore”.

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Una magistratura con le armi spuntate: intervista al procuratore aggiunto della Dda Nicola Gratteri

ottobre 29, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

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È un dedalo di lunghi corridoi. Facile perdersi camminando all’interno del palazzo di giustizia di Reggio Calabria. È qui che incontriamo il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Nicola Gratteri.

Sorride Gratteri, lui che è solito non lasciare trasparire nessuna emozione quando lavora e assume l’atteggiamento di un chirurgo intento ad eseguire con il suo bisturi una delicata operazione, adesso può scherzare e spiegarci il suo metodo infallibile per orientarsi in questo labirinto. Se lo applichi, non ti perdi mai.

Ci fidiamo, perché ne ha inventati e applicati tanti di metodi Gratteri per orientarsi lungo maglie ben più intricate, per penetrare nei meandri oscuri delle organizzazioni criminali. Un metodo. Che cos’è un metodo? Secondo Giovanni Falcone «qualcosa di decisivo, di grande spessore. Senza un metodo non ci si capisce niente».

E qual è il metodo di Gratteri? Qualcosa di duttile, ma che ha alla base un principio fondamentale: «Vado avanti nel mio lavoro per due ragioni: io non ho il senso del limite né il senso della paura».

Se hai paura, ti fermi. Se non metti in conto ogni possibilità, rischi di vedere realizzato ciò che non avevi previsto. Se ti lasci vincere dalle emozioni, diventi miope davanti alla realtà. Fallisci. No, un magistrato non può permetterselo. Ecco il motivo per cui Nicola Gratteri non smette mai di lavorare se non una settimana l’anno, durante la quale non si distacca mai dal suo telefonino, perché «potrebbe essere necessario essere presente». La sua vita è il suo lavoro.

È con Gratteri che vogliamo affrontare un argomento spinoso, cioè quello relativo alla modifica della disciplina delle intercettazioni, prevista dal ddl Alfano.

L’intercettazione nel diritto processuale penale italiano è un mezzo di ricerca della prova tipico ed è uno strumento di cui la magistratura e gli investigatori si servono per condurre le loro indagini. Il suo uso si è rivelato fondamentale e decisivo nella cattura di importanti latitanti, tra i quali lo stesso Bernardo Provenzano.

A causa del moltiplicarsi incontrollato di continue interferenze nella vita privata dei cittadini e dell’emergere del problema della divulgazione delle intercettazioni stesse, il governo Berlusconi ha elaborato un progetto di riforma che interviene drasticamente nella materia. Infatti, da un lato, vengono ridotti i casi in cui è consentito ricorrere alle intercettazioni, tenendo poco conto delle esigenze investigative della magistratura; dall’altro, in nome di una maggiore tutela della privacy, viene fortemente ridimensionata la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, colpendo un diritto fondamentale dell’uomo quale la libertà di espressione, intesa sia dal lato attivo che dal lato passivo, cioè sia come diritto ad informare che come diritto ad essere informati.

gratteri_2In pratica, come ci spiega nel dettaglio Gratteri, se il ddl dovesse essere convertito in legge, per un pubblico ministero sarà molto più difficile richiedere e ottenere l’autorizzazione ad intercettare; in alcuni casi le intercettazioni diventeranno impossibili, o perché il procedimento è contro ignoti o perché non esistono “gravi indizi di colpevolezza” (prima erano sufficienti “gravi indizi di reato”); dopo il sessantesimo giorno le intercettazioni dovranno comunque essere interrotte. Inoltre, la pubblicazione del loro contenuto sarà sottoposto a forti restrizioni, con severe sanzioni a carico dei trasgressori (editori e giornalisti).

Il ddl Alfano ha suscitato, per tutti questi motivi, perplessità e timori da parte dell’opinione pubblica, della magistratura e del mondo dell’informazione.

Chiediamo a Gratteri che peso hanno le intercettazioni nelle indagini di mafia.
«Le mafie, come la società civile, utilizzano per le loro attività, sia lecite che illecite, i mezzi, gli strumenti, la tecnologia, e quindi anche i telefonini, utili per la realizzazione delle attività rispettivamente lecite ed illecite. Quindici anni fa i telefoni cellulari erano poco usati, quindi la polizia giudiziaria cercava di intercettare i telefoni di cui aveva la conoscenza numerica, di cui sapeva l’esistenza. Appena sono stati inventati e distribuiti in commercio i telefonini mobili non era possibile intercettarli, dopo circa un anno è stato inventato uno strumento, la valigetta, che rendeva necessario seguire la persona da intercettare. Nel ’93 mi è capitato di intercettare un riciclatore della ‘ndrangheta che andava a riciclare nell’Est europeo e che utilizzava il cellulare, ma che purtroppo viaggiava su una ferrari, o una maserati biturbo. Poi la tecnologia si è perfezionata e abbiamo iniziato ad intercettare tutti i telefonini senza seguirli. Successivamente è stato utilizzato il sistema di trasmissione GSM. Anche in questa circostanza non abbiamo avuto la possibilità di intercettare, ed una volta creata la tecnologia per poterlo fare, era possibile intercettare non più di trecento telefonini in Italia. Questo per dire che i sistemi di intercettazione hanno sempre inseguito la tecnologia che il mercato immette per l’uso civile. Partendo da quegli anni, con quei pochi mezzi, oggi si è arrivati al punto che in Italia ogni cittadino ha in media un telefonino e mezzo. Tutte le attività, sia lecite, che di natura privata, che di natura illecita, avvengono tramite l’uso diffuso del cellulare. Quindi c’è un massiccio utilizzo della tecnologia sia per scopi leciti che illeciti. È inevitabile che, se si vuole dimostrare la commissione di un reato, è necessario intercettare un gran numero di telefonini».

Dunque non si può parlare di abuso da parte della magistratura dello strumento dell’intercettazione, eppure il ministro Alfano ha individuato la ratio della riforma proprio nell’uso smodato delle intercettazioni, che ha reso necessaria la tutela della privacy dei cittadini. Egli ha affermato che i magistrati non lavorano solo con le cuffie, sminuendo così il valore delle intercettazioni. Cosa ne pensa?
«I grandi numeri relativi alle intercettazioni riportati dal Ministero della Giustizia traggono in inganno l’opinione pubblica, perché, quando si fanno dei grafici e si danno dei numeri di statistica, a seconda dei parametri che io stabilisco, quegli stessi numeri possono sembrare assai o pochi. Recentemente ho fatto un’indagine per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti nei confronti di 53 persone. Queste sono state intercettate un anno, un anno e mezzo, due. Per intercettare queste persone, è stato necessario intercettare 10.500 telefonini. Se io sono una persona onesta, dirò che sono state intercettate 53 persone; se io non sono una persona onesta, dirò che sono state intercettate 10.500 persone. In pratica, il trafficante di cocaina fa un numero di telefono e parla con il cugino per 15-20 secondi, senza dire come si chiama, senza fare nomi, modificando il tono della voce, fornisce notizie sul carico che sta arrivando in Europa, poi butta la scheda e all’estero ne compra una nuova, anonima, o intestata ad una persona morta, quindi, alla telefonata successiva avrà un nuovo numero. Di conseguenza io, ogni giorno, ogni settimana, ogni due settimane al massimo, nei confronti della stessa persona dovrò chiedere una nuova intercettazione. Questo giochino viene fatto da tutti gli indagati. Cambiano tutti scheda per disperdere le loro tracce. E noi cerchiamo di arrivarci nuovamente, di raggiungerli. Questo è un esempio. Io nell’arco di un anno faccio dieci di queste indagini, moltiplichiamo questo esempio per tutte le procure d’Italia, 27, ecco perché poi abbiamo quei grandi numeri».

Quanto costa un’intercettazione?
«Rispondo con un altro esempio, perché ritengo che così la gente possa comprendere meglio. Mettiamo il caso che io debba pedinare una persona, che ritengo stia commettendo un reato, da Reggio Calabria a Roma. Ho due modi per sapere in quale casa o in quale ufficio si reca: o metto sotto controllo il suo cellulare o lo pedino, in quest’ultimo caso, con un’altissima possibilità di essere scoperto. Se mi servo del telefono, questa operazione mi costa 12 euro più iva nell’arco delle 24 ore. Invece, se non posso utilizzare il cellulare, devo organizzare un pedinamento, quindi impiegare due o tre macchine, con a bordo due o tre persone, con il rischio di perdere il soggetto lungo il viaggio, o nel traffico della capitale, di essere scoperti, con costi elevatissimi dal punto di vista economico. Questo esempio rende chiara l’importanza dello strumento dell’intercettazione, che non è solo utile ma anche economico».

In uno stato democratico è più importante tutelare la privacy dei cittadini o il loro diritto ad essere informati? Come si raggiunge un equilibrio tra queste due esigenze?
«Tutto sta alla deontologia e alla sensibilità del giornalista. Il diritto all’informazione è importante perché è attraverso l’informazione che i cittadini si formano una coscienza di ciò che accade nel mondo, ma spesso, per la brama di uno scoop, si creano danni alle indagini e quindi alla tutela della collettività».

Pentiti e intercettazioni: cosa è più utile alla magistratura?
«Nella prima metà degli anni ’90 c’è stato il boom dei collaboratori di giustizia perché dal punto di vista normativo era utile esserlo. Specifico che uso il termine “collaboratori di giustizia” e non quello di “pentiti” non a caso, innanzitutto perché la norma non prevede che si dichiarino pentiti; in secondo luogo, perché non si sono pentiti mai, hanno collaborato, ma non hanno mai dichiarato di essere pentiti. Ad ogni modo, essi sono stati uno strumento importante e formidabile, perché per decenni c’erano stati omicidi irrisolti e indagini che non si riusciva mai a portare alla fase del dibattimento. Col tempo questo fenomeno si è andato affievolendo, sia perché era un fatto fisiologico (in quel momento c’era tanta gente disposta a collaborare), sia perché ci sono state delle modifiche normative tali da non rendere più conveniente collaborare. Le intercettazioni sono rimaste lo strumento più garantista ed economico per l’acquisizione della prova. Più garantista perché, se c’è l’intercettazione, si tratta della voce del protagonista, che non può essere modificata, non può essere una verità storpiata; mentre, un collaboratore di giustizia, essendo un essere umano, può raccontare un fatto in modo diverso da quello che è stato nella realtà, anche involontariamente. Quindi l’intercettazione è una forma di prova di assoluta valenza».

giovanni_falconeIn particolare Gratteri ci spiega come l’introduzione del metodo del patteggiamento in appello (abrogato dal primo decreto legge dell’attuale governo), che consentiva una forte riduzione di pena nel momento in cui in Corte di appello si trovava un accordo tra l’avvocato e il pm di udienza (sostituto procuratore generale), abbia reso molto più conveniente andare in carcere ed uscirne presto, piuttosto che collaborare con la giustizia e fare i conti dopo con un’organizzazione mafiosa piena di voglia di pareggiare i conti con il sangue. Dunque, lo Stato depotenziò allora lo strumento dei collaboratori di giustizia (come disse lo stesso Falcone: «Non mi stupisce che qualcuno si sia pentito di essersi pentito»), e ora vuole privare la magistratura di un altro mezzo indispensabile per le indagini, le intercettazioni, inceppando la macchina della giustizia, invece di renderla più veloce; burocratizzandola ulteriormente, invece di snellirla, aumentando la faraginosità del processo penale; rendendo, inoltre, sempre più probabile il rischio che la magistratura resti indietro, dal punto di vista dell’uso delle moderne tecnologie, contro una criminalità sempre più attrezzata e all’avanguardia. Sembra quasi che la nostra magistratura debba lottare non solo contro la criminalità, facendo così il proprio dovere, ma anche per restare in possesso di quegli strumenti di lavoro che le spettano, esattamente come al chirurgo il bisturi.

Cosa prova un magistrato che si vede all’improvviso privato dei suoi strumenti di lavoro?
«Prova grande amarezza, però bisogna stringere i denti, andare avanti e fare bene il proprio lavoro, con fedeltà alle istituzioni e non mollando mai per non fare il gioco degli sporcaccioni».

Pensa davvero che i politici fanno leggi a loro vantaggio?
«Chiunque è al potere non vuole essere controllato, condizionato, quindi non tollera un sistema giudiziario forte. Molti parlamentari sono in buonafede; molti non conoscono l’argomento, quindi votano a seconda di ciò che dice il capogruppo; altri sono in malafede; altri ancora sanno di creare un danno per la collettività, ma non per il centro di potere che rappresentano».

Con questa riforma lo Stato, tutelando la privacy dei cittadini, non rischia di nuocere alla loro sicurezza?
«È ovvio che, se dovesse entrare in vigore la legge, non avremmo più il polso della situazione, nessun controllo sulle mafie, e, quindi, la collettività risulterebbe meno tutelata».

Pensa che nei paesi cosiddetti “civili” dell’Occidente, compresa l’Italia, valori quali la libertà di pensiero, di espressione, la democrazia stessa, siano traguardi ormai raggiunti per sempre o sempre in pericolo?
«Io dico che la democrazia, quei valori che a noi sembrano assoluti, inamovibili, certi, in verità, non lo sono. Essi non sono né sicuri né assodati e noi dobbiamo stare attenti, giorno per giorno, che qualcuno non ce li rubi e non ci spogli di quei valori che stanno alla base della nostra Repubblica. Essi non costituiscono certezza granitica, automatismo. L’opinione pubblica non si deve assuefare a certe spallate, a certe espressioni forti, né bisogna riderne o sorriderne».

Platone auspicava ne “La Repubblica” un governo retto dai filosofi, cioè uomini giusti. È quello che auspica anche lei?
«Io mi auspico una maggiore coerenza tra ciò che si fa e ciò che ognuno di noi dovrebbe fare per quello che è il proprio ruolo e la propria funzione. Siamo tutti bravi ad essere pensatori, grandi strateghi, però poi, nel nostro lavoro, non siamo coerenti. Se lo fossimo, tutto sarebbe diverso e non saremmo in questa situazione».

Alla fine dell’intervista ci chiediamo quando un metodo risulta essere efficace. Probabilmente quando è al passo con i tempi. Giovanni Falcone diceva che «le informazioni invecchiano e i metodi della lotta devono essere continuamente aggiornati». La mafia questo sa farlo e lo fa molto bene; lo Stato, invece, sta dimostrando ancora di non saperlo fare, o di non volerlo fare. E chissà cosa direbbe oggi il giudice Falcone, il quale insistette spesso sul ruolo indispensabile delle intercettazioni, soprattutto nell’ambito delle indagini realtive al traffico di stupefacenti, se sapesse che la magistratura corre il rischio di essere privata della possibilità di servirsi di questo strumento, (rischio che corriamo tutti, perché sono in gioco qui la nostra sicurezza e la nostra libertà). Forse non si stupirebbe. E oggi è sempre più difficile combattere e vincere una guerra armati di clava e di martello!