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“Spada locale” o “Pistola locale”?: scempio sull’immagine di Giuseppe Sorgonà

giugno 23, 2011

di Noemi Azzurra Barbuto

Quando ci si abitua alla brutalità e alla violenza, accade che il segno che queste lasciano è sempre più superficiale, e molto facilmente si può dimenticare. Le ferite inferte su una pelle indurita dalle botte della vita quasi non sanguinano più.

No, non fa più effetto qui la morte. Quella morte che guidando una motocicletta si accosta al finestrino e ti fa fuori. Pum. E la vita finisce.

Ma la vita continua. E le vite che scorrono frenetiche cancellano il sangue sull’asfalto, i passi affrettati della gente ogni mattina consumano le strade, i marciapiedi, le macchine passano distratte, mentre vanno da qualche parte. Nessuno si accorge che lì, ai lembi di quella via trafficata, qualcuno è stato ucciso. Nessuno se ne ricorda già più. Un mazzo di fiori freschi, posati con dolore e con amore, non basta a rinverdire la memoria dei passanti che vogliono solo dimenticare ed andare avanti intenti a vivere, né la foto di un ragazzo sorridente. Tutto fa parte dell’abitudine. Niente sconvolge.

È passata troppa vita sulla morte. Per questo non stupisce più che un ragazzo sia stato crivellato su quella via, né che su quel lampione, sopra quella foto e quei fiori, ogni mattina qualcuno privo di sensibilità esibisca un grande cartellone con una rudimentale scritta: “Spada locale euro 20.00”. E, come se questo non bastasse, accanto al lampione la testa sanguinante di un pescespada che infilza un altro cartello recante la medesima indicazione.

Sembra quasi una beffa crudele e cinica.

È questo il peggiore simbolo dell’assuefazione alla violenza, cruda testimonianza della mancanza di rispetto verso chi troppo precocemente è caduto per mano e per scelta di qualcuno che non è Dio.

Altra vita scorrerà su questa morte, su quella strada, accanto a quel lampione. Tutto sarà diverso: le macchine, le stagioni, i fiori, il pesce. Il mondo continuerà ad andare a rotoli. La gente continuerà a dimenticare. Noi invecchieremo. Ciò che resterà immutabile per tutta la vita sarà il sorriso di Giuseppe Sorgonà, un ragazzo di appena 25 anni, sparato un pomeriggio di gennaio del 2011 in via De Nava a Reggio Calabria, mentre, uscito da poco dal lavoro, tornava a casa in macchina con accanto il suo bambino di un anno e mezzo.

Ed ogni volta che i suoi assassini passeranno da quella strada dovranno guardarlo quel sorriso. Il sorriso di chi hanno ucciso. La vita che scorre cancella il sangue sull’asfalto, a volte persino il ricordo, ma non potrà mai pulire le loro mani.

 

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La lotta alla mafia tra associazionismo ed istituzioni

Maggio 14, 2010

di Noemi Azzurra Barbuto

Discutere di mafia, ma soprattutto di antimafia. È stato questo l’obiettivo del convegno promosso dal Comitato Interprovinciale per il Diritto alla Sicurezza (Cids), tenutosi ieri mattina all’interno di palazzo San Giorgio a Reggio Calabria.

Un’occasione per riflettere insieme sui numerosi problemi che affliggono il Mezzogiorno, in particolare la Calabria, la regione con la più alta densità mafiosa in Europa. Ed è proprio la criminalità organizzata la matrice comune di tutte le problematiche sociali ed economiche locali, dalla disoccupazione alla corruzione.

Prendendo le mosse dal vergognoso applauso al boss Giovanni Tegano davanti alla questura reggina al momento del suo arresto, nonché dalla reazione di indignazione che questo gesto ha suscitato, Demetrio Costantino, presidente del Cids, ha elencato gli interventi più urgenti nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata.

Migliorare la legislazione riguardante la certezza della pena; bloccare l’iter del disegno di legge “svuota carceri”, che avrebbe conseguenze pericolose in termini di sicurezza; adottare delle misure adeguate per l’utilizzo intelligente dei beni acquisiti illecitamente e confiscati; aumentare le risorse del Fondo di solidarietà destinato ai familiari delle vittime. Sono questi solo alcuni degli strumenti che, secondo Costantino, contribuirebbero a rendere più penetrante l’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.

Repressione che non può fare a meno della prevenzione, che deve avere il contributo da parte di tutta la società civile, come ha sottolineato anche Enzo Pisano, che ritiene che «la lotta alla mafia avrà successo a condizione che sia democratica», ossia partecipata.

«Le associazioni non bastano», ha continuato Pisano. Fondamentale il ruolo dei giovani affinché si realizzi quello «sforzo di verità» che, secondo Francesco Toscano, vicepresidente Cids, «deve portare ad una nuova classe politica, che non si porti dietro il puzzo del ricatto morale».

A questo proposito, Costantino ha sollecitato la Commissione parlamentare antimafia, che, in relazione al connubio mafia-politica, ha reso noto che alle elezioni regionali in Calabria i candidati fuori dal codice etico erano 28 e ben 18 eletti, a fornire «maggiori elementi per non sospettare e generalizzare su tutti».

Molta sensibilità è stata mostrata nei confronti dei familiari delle vittime, che spesso subiscono disattenzione e trattamenti ineguali. «Ci vuole sobrietà per non accrescere la disperazione dei familiari lasciati nel silenzio», ha affermato il presidente del Cids.

Ma, nella lotta alla criminalità, «la priorità assoluta è l’educazione alla legalità», al fine di creare un clima di fiducia nonché un rapporto diretto tra istituzioni e cittadini.

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La fondazione Giovanni Filianoti: mattone importante per una società migliore

febbraio 12, 2010

di Noemi Azzurra Barbuto

Trasformare la disperazione in speranza e la rabbia in impegno sociale. È la scelta dei familiari di Giovanni Filianoti, onesto imprenditore reggino assassinato brutalmente da ignoti il 1 febbraio del 2008 davanti alla sua abitazione, i quali hanno dato vita ad una fondazione a scopo benefico a lui intitolata, inaugurata lunedì primo febbraio, in occasione del secondo anniversario della morte, presso la sede di via Fata Morgana a Reggio Calabria.

Nata sotto i migliori auspici, considerando la copiosa presenza dei cittadini e degli esponenti politici, tra i quali il sindaco Giuseppe Scopelliti, che ha reciso il nastro rosso insieme ai figli dell’imprenditore scomparso, la fondazione, come ha spiegato la sua presidente, Natalia Filianoti, «rappresenta un luogo fisico ed ideale dove incontrare nostro padre ed uno strumento per approdare ad una società migliore».

Obiettivi della fondazione sono infatti quello di perpetuare la memoria di Giovanni Filianoti, nonché la promozione della cultura della legalità soprattutto tra i giovani.

Ed è a loro che la fondazione si rivolge, spingendoli a reagire senza violenza e sostenendoli nella loro crescita morale e civile, attraverso borse di studio, formazione lavorativa e diversi progetti indirizzati e pensati dai ragazzi.

La prima attività sarà una borsa di studio in favore degli studenti dell’istituto tecnico commerciale Raffaele Piria, chiamati ad esprimersi sul tema dell’omertà.

«Abbiamo deciso di continuare la strada tracciata da nostro padre, rendendo pubblico il suo stile di vita ed il suo modo di pensare: aiutare il prossimo», ha affermato il vicepresidente Walter Filianoti.

La creazione della fondazione rappresenta già un deciso strappo a quella mentalità atavica, fino a poco tempo fa troppo diffusa nel Mezzogiorno, che vuole che all’odio si risponda con altro odio, dando vita ad una spirale di sangue e di rancori che non ha vincitori ma soltanto vinti.

La famiglia Filianoti, invece, come ha sottolineato Scopelliti, all’ingiusta ed irreparabile perdita del loro congiunto ha risposto con l’amore. Un insegnamento importante per tutti, indice di una profonda forza interiore nonché di un’evoluzione in atto all’interno della nostra società.

«Avete posto un mattone nuovo per la costruzione di una città diversa», ha concluso il sindaco, ringraziando i familiari di Giovanni Filianoti.

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Il museo della ‘ndrangheta: la casa della speranza

dicembre 2, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

E’ immersa tra le colline di Croce Valanidi la villa a tre piani, fornita di bunker e di passaggi sotterranei, che, confiscata alla mafia e consegnata dal Comune all’associazione “Antigone”, è adesso sede del “Museo della ‘ndrangheta”, inaugurato ieri mattina.

In questa occasione è stata aperta al pubblico anche la mostra fotografica permanente “Silenzio e memoria”, curata da Adriana Sapone, comprendente 150 immagini a colori ed in bianco e nero, che raccontano in modo a volte cruento le due storie parallele della mafia e dell’antimafia.

Presenti alla cerimonia importanti esponenti del mondo politico e delle forze dell’ordine, tra questi il capo della squadra mobile, Renato Cortese.

A recidere il nastro simbolo dell’apertura ufficiale del museo, benedetto da don Antonino Vinci, il sindaco Giuseppe Scopelliti, che ha spiegato il significato di questo progetto ai duecento studenti degli istituti superiori di Reggio Calabria, Palmi, Taurianova, Villa San Giovanni, Siderno e Locri, accolti dal coordinatore del museo Claudio La Camera e da tutto lo staff.

Non vogliamo storicizzare la mafia, metterla in un museo e dire che appartenga al passato, perché non è così – ha affermato Scopelliti – l’obiettivo è trasmettere ai ragazzi la cultura della speranza“.

Sul carattere non celebrativo del museo e sul suo valore culturale si sono soffermati anche il consigliere comunale Giuseppe Sergi, che ha ribadito che la lotta alla mafia debba andare al di là del colore politico; l’assessore provinciale alle Politiche Sociali Attilio Tucci, che ha fortemente sostenuto questo progetto ed ha spiegato come questo si estenderà fino ad assumere una dimensione internazionale; e l’assessore regionale Demetrio Naccari, secondo il quale, questo museo può fornire ai giovani “la visione della verità da uno spiraglio diverso“.

La ‘ndrangheta non ha piacere che si parli delle sue attività – ha commentato il vice prefetto Giuseppe Priolo – noi siamo qui per parlarne e per fare vedere ciò che di orrendo è capace di fare“.

Una lezione utile per i ragazzi, che potranno comprende, passeggiando tra le lussuose stanze della villa, che la mafia esiste ancora e che il mafioso vive sempre nella paura ed è privo di libertà non solo nello spazio ristretto di una cella o di un nascondiglio, ma anche nella sfarzo e nella ricchezza della sua casa.

Questo è anche il museo del presente, dove noi possiamo aiutare i ragazzi a costruire occhi che vedono ed orecchie che sentono“, ha dichiarato Fulvio Librandi, ideatore e responsabile scientifico del progetto.

Anche io da ragazzo – ha proseguito Librandi – avrei desiderato un luogo come questo, senza intuire la mafia dai silenzi e dagli sguardi bassi degli adulti“.

Quindi, il museo della ‘ndrangheta è un museo soprattutto dei giovani, uno spazio di azione e di ricreazione, in cui potrà essere coltivata quella cultura della legalità indispensabile per un efficace cambiamento di rotta.

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Carlo Giovanardi ai giovani: “Siate egoisti!”

ottobre 30, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

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La famiglia può essere considerata un indicatore che rivela il livello di benessere di un’intera società, dal momento che quando si ammala, in quanto cellula prima della società, a soffrirne è l’organismo intero.

Creare delle politiche di sostegno all’istiuzione familiare diventa di fondamentale importanza nella cura e nella prevenzione di diversi mali che ci affliggono.

Secondo il sen. Carlo Giovanardi, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, con delega alla famiglia, alla droga e al servizio civile, una famiglia forte costituisce il presupposto fondamentale anche per l’integrazione degli immigrati.

In occasione della visita al CISM di Reggio Calabria, una società cooperativa che opera sul territorio calabrese dai primi anni ’80 e che si occupa dell’accoglienza agli immigrati, presso la quale si è recato insieme al consigliere regionale Giovanni Nucera, Giovanardi ha dichiarato di non essere favorevole all’introduzione della religione islamica nella scuola italiana, dal momento che, invece di agevolare l’inclusione dei ragazzi musulmani, li separerebbe ancora di più dagli altri. Gli stranieri che decidono di venire a vivere in Italia devono rispettare e conoscere la nostra cultura, che affonda le sue radici nella cristianità. È questa conoscenza che favorisce l’integrazione”.

Viviamo dunque in una società complessa, in cui anche la famiglia si evolve verso forme nuove, diverse da quel modello tradizionale che era predominante fino a qualche decennio fa. La disgregazione del nucleo familiare crea incertezza nei giovani, ai quali vengono a mancare punti di riferimento indispensabili nella crescita. A questo proposito, il sottosegretario di Stato ha osservato che “è statisticamente più facile provvedere all’educazione di un figlio in una condizione di equilibrio che in una situazione di disgregazione del nucleo familiare o in cui è presente conflittualità latente tra i coniugi”.

Ma la debolezza della famiglia non è l’unico problema dei giovani di oggi. Essi, infatti, stanno facendo i conti anche con una crisi economica, che, per le proporzioni che ha assunto e le sue conseguenze, è stata paragonata a quella del ’29. Questo non fa altro che accentuare l’incertezza dei ragazzi verso il fututo. Tuttavia, Giovanardi esorta i giovani a riflettere su quanto di positivo hanno rispetto a quelli di una volta, i quali forse avevano più certezze, ma minore benessere, un’aspettativa di vita ridotta, poche posssibilità di viaggiare e di informarsi. Afferma il senatore: “Oggi i giovani vivono nel periodo più fortunato della storia, la qualità della vita è nettamente superiore rispetto a quella di altre epoche storiche. Ma questo benessere va mantenuto, guardando al futuro in modo positivo, creando nuovi nuclei familiari, mettendo al mondo dei figli, perché, in caso contrario, tra denatalità, invecchiamento della popolazione e fenomeno migratorio, c’è il rischio reale per l’Italia che tra qualche generazione si trasformi in un Paese in cui gli italiani sono una minoranza”.

Forse sono proprio i giovani del Mezzogiorno d’Italia a risentire maggiormente dei danni prodotti dalla crisi, perché qui essa si è innestata in un sistema economico che è in crisi da sempre. Come uscire dal circolo vizioso della mafia e del sottosviluppo? Giovanardi è convinto che se ne venga fuori lavorando dall’alto e dal basso. Dall’alto, con lo Stato, che deve mettere in campo la magistratura, le forze dell’ordine, per reprimere la criminalità; dal basso, con l’impegno congiunto della Scuola, della Chiesa, delle famiglie, delle agenzie educative, che devono concorrere tutte per ottenere risultati positivi”.

Il senatore ha dato questo consiglio ai ragazzi: “Siate egoisti. E l’egoismo è pensare a studiare, ad acquisire professionalità, a sposarsi, ad avere dei figli, preparandosi così un futuro che non sia di solitudine, ma nel quale la formazione di una famiglia, con dei figli, dei nipoti, consentirà di avere anche una vecchiaia che non sia di abbandono e di disperazione”. Ed essere egoisti significa anche non bere, non drogarsi, non fumare, non farsi del male.

In una società che si fa sempre più vecchia e che per questo tende ad escluderli; sempre più competitiva, nella quale diventa sempre più difficile trovare un proprio ruolo; nella quale i ragazzi si sentono paradossalmente soli, sebbene la comunicazione non sia mai stata così facile e veloce, è forse questa la ricetta della felicità per i giovani: mettere al centro di tutto i loro sogni, il loro futuro; in una parola, loro stessi.

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Al via con il colonnello Angelosanto i progetti didattico culturali di Riferimenti

ottobre 30, 2009

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di Noemi Azzurra Barbuto

È un piccolo appartamento confiscato alla criminalità organizzata e poi concesso dal nostro comune per l’utilizzo a fini sociali quale sede dell’organizzazione di volontariato “Riferimenti”. Ed è qui in via XXV Luglio, nella zona nord della città di Reggio Calabria, che si sono incontrati il presidente dell’associazione “Riferimenti”, Adriana Musella, e il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Pasquale Angelosanto, accompagnato dal comandante della Compagnia cittadina, capitano Nicola De Tullio, alla presenza di tutti gli studenti dell’ultimo anno della scuola media statale “Galileo Galilei”.

Un’occasione per scoprire nella sede nazionale dell’organizzazione, che è presente su buona parte del territorio italiano, la targa dedicata all’ingegnere salernitano Gennaro Musella, padre di Adriana, ucciso dalla mafia il 3 maggio del 1982; ma anche per ricordare tutte le vittime della violenza criminale attraverso il simbolo della gerbera gialla, un fiore che rappresenta il dolore dei lutti ma, nello stesso tempo, la rinascita della speranza di creare nuove etiche collettive.

E portano il nome di “Gerbera Gialla” i progetti didattico-culturali di Riferimenti, di cui l’incontro di oggi con la scuola media non è che una felice partenza. Musella infatti spiega che altre scuole della città, a rotazione, parteciperanno a questi appuntamenti educativi, perché, «per contrastare la criminalità organizzata, non basta – afferma la Musella – l’opera della magistratura e delle forze dell’ordine, c’è bisogno di qualcosa di più grande, bisogna creare una cultura della legalità».

«La via sono i ragazzi», ne è convinta Musella, che racconta di come, fino a pochi anni fa, venisse negata da tutti persino l’esistenza della mafia. Molte cose sono cambiate da allora, ma molte ancora restano da realizzarsi. «Non è frequente questo tipo di contatto con gli alunni delle scuole, ma è qualcosa di molto positivo, perché è da voi che dipende il futuro», queste le parole di Angelosanto ai ragazzi, che hanno dimostrato molta curiosità riguardo ai metodi di indagine e alle attività dell’Arma dei Carabinieri. Numerosi sono stati i temi affrontati, dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti all’usura, dal riciclaggio di denaro sporco al gioco d’azzardo.

Il comandante provinciale ha spiegato anche perché la ‘ndrangheta sia più potente rispetto alle altre organizzazioni criminali, ossia a causa della sua struttura familiare, che, legando con il sangue tutti i suoi affiliati, la rende inattaccabile, dal momento che rinnegarne l’appartenenza equivarrebbe a tradire il padre, o il fratello, o lo zio.

«Le forze di polizia non possono superare queste difficoltà – ha affermato Angelosanto – serve la collaborazione da parte di tutti i cittadini». Ecco perché ad un ragazzo che chiede un consiglio da dare ai cittadini Angelosanto risponde: «Denunciate sempre tutte le prevaricazioni di cui restate vittime. Fatelo senza timore, perché, se tutti facciamo la nostra parte, il risultato sarà positivo».

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A tu per tu con il pm della Dda Antonio De Bernardo

ottobre 28, 2009

antoniodi Noemi Azzurra Barbuto

Coraggiosi eroi dal lungo mantello nero e dal volto scoperto, ma anche uomini, come tutti quanti noi, pieni di dubbi, di malinconie, di paure. Le mettono da parte però in nome di un ideale più grande, nel quale, nonostante tutto, non hanno mai smesso di credere. E’ questa la forza: essere uomini ma continuare a credere anche quando tutto intorno crolla e tu ti accorgi tra le macerie di essere rimasto da solo a farlo, anzi credere proprio per questo con maggiore intensità.

Sono i sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), istituita presso la Procura della Repubblica del tribunale di ventisei capoluoghi di distretto di Corte d’appello, i quali, in tutta Italia, si impegnano quotidianamente nella lotta alla criminalità organizzata.

Ecco cosa significa davvero “dedicare la propria vita al lavoro”: non si tratta soltanto delle numerose ore, sia diurne che notturne, trascorse ad indagare, ad interrogare, a studiare, a ricostruire ogni parola, ogni gesto, ogni fatto, in cerca della verità; ma anche e soprattutto della perdita, volontaria ma non per questo meno sofferta, di tante piccole libertà che noi diamo per scontate e che, in effetti, tali dovrebbero essere anche per coloro che stanno sul fronte della legalità.

In un mondo perfetto chi sbaglia calpestando i diritti degli altri dovrebbe nascondersi e temere; ma questo mondo è terribilmente imperfetto e pieno di assurde contraddizioni, così succede che uomini onesti debbano rinunciare a parte della propria libertà personale proprio in nome della Libertà e della Giustizia, per costruire una società migliore in cui vivere tutti alla luce del sole.

Ma cosa c’è dietro questa scelta? Per comprenderlo abbia rivolto alcune domande ad un sostituto procuratore antimafia della DDA di Reggio Calabria, il Dott. Antonio De Bernardo. Sul suo viso scorgiamo un senso di forza consapevole, una calma sicura che sembra derivare dalla coscienza, ormai fin troppo chiara, della realtà del mondo in cui viviamo; ma non è rassegnazione, piuttosto è volontà di non lasciarsi scivolare giù, mentre tutto il resto scivola.

Cosa ne pensa del rapporto tra mafia e politica?
“La politica è la sede in cui la collettività prende le sue decisioni più importanti, soprattutto in settori cruciali dell’economia, e, quindi, è inevitabile che un’entità parassitaria come la mafia tenti di inserirsi nei processi decisionali; d’altra parte, la mafia è in grado di controllare consistenti pacchetti di voti e questo crea, in alcuni casi, una sorta di simbiosi molto pericolosa con parte delle istituzioni. Il rapporto andrebbe scardinato, ma questo compito non spetta soltanto alla magistratura”.

Gli avvenimenti degli anni di fuoco della lotta alla mafia, ’92-’93, l’hanno toccata in qualche modo?
“Nessun cittadino e nessun magistrato potrà mai dirsi non toccato da quelle vicende, che hanno determinato in me la spinta propulsiva verso la mia scelta professionale”.

Quali pensieri e quali sensazioni suscitò in Lei l’assassinio di Giovanni Falcone?
“Suscitò in me sentimenti di rabbia e di profonda tristezza, insieme alla convinzione che da quel punto bisognasse necessariamente iniziare a reagire seguendo il suo esempio”.

La mafia dovrebbe essere combattuta agendo su più fronti: istituzionale, culturale, politico, sociale. Secondo Lei, in cosa dovrebbe consistere l’impegno da parte dei giovani?
I giovani devono riavvicinarsi al valore della legalità, anzi devono proprio riscoprirlo come valore, perché oggi c’è la tendenza a considerare il rispetto della legalità come una limitazione della libertà, invece è l’unica strada per raggiungerla davvero.

“Mi viene in mente una frase di Rousseau, “Avrei voluto vivere e morire libero, cioè tanto sottomesso alle leggi che né io né alcuno avesse potuto sentirne il giogo onorevole, giogo salutare e dolce, che le teste più orgogliose sopportano tanto più docilmente quanto più sono fatte per non portarne nessun altro”.

Giovanni Falcone diceva a proposito di se stesso: “Non sono Robin Hood né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium”. Lei si ritrova in questa definizione?
“Sicuramente sì, anche se a volte le condizioni sono talmente difficili che il magistrato può sentirsi o apparire davvero come Robin Hood, o come un kamikaze, o come un trappista. Quando questo accade, vuol dire che c’è nel sistema qualcosa di patologico che deve essere corretto”.

La mafia deve essere combattuta ancora nel territorio in cui è nata, nonostante abbia assunto caratteristiche transnazionali?
“Sicuramente è innegabile il suo carattere transnazionale, un aspetto su cui forse si è concentrata in ritardo l’attenzione degli operatori, tuttavia è sempre nelle sfortunate terre del meridione d’Italia che le cosche prendono le loro decisioni, hanno i loro vertici e la loro forza. Quindi l’azione repressiva non può prescindere da un costante monitoraggio dell’attività dei sodalizi criminosi nei territori di origine”.

Quanto il Suo lavoro condiziona la Sua vita privata?
“Condiziona molto la mia vita privata, innanzitutto per la mole di lavoro e anche per i profili relativi alla sicurezza. Ma sono limitazioni che si mette in conto di dovere accettare nel momento stesso in cui si decide di occuparsi di antimafia”.

Giovanni Falcone disse: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. Secondo Lei, egli fu ucciso dalla mafia o lo uccise piuttosto l’essere stato lasciato da solo a combattere una battaglia troppo grande per un solo uomo, quindi il non essere stato supportato adeguatamente dallo Stato? E’ questa la solitudine a cui è condannato l’eroe che diventa scomodo per la sua grandezza?
“Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia. E’ indubbio che la magistratura in prima linea nella lotta alla mafia deve sempre poter contare – pur nella normalissima dialettica istituzionale -, sul costante e visibile appoggio della società civile e di tutte le istituzioni, appoggio senza il quale l’azione repressiva risulta senz’altro indebolita, e l’esposizione dei singoli magistrati più evidente”.

Cosa è cambiato da allora?
“Le morti di Falcone e di Borsellino hanno sortito l’effetto di sensibilizzare molto l’opinione pubblica riguardo ai temi della lotta alla mafia, effetto che a distanza di anni forse si va esaurendo purtroppo in larghi settori della società civile”.

Lei ha paura?
“No. Mai”.

Rafforzare la presenza dello Stato può costituire un mezzo per sconfiggere la mafia, abbattendo la convinzione, antica e radicata nella gente del sud, che lo Stato sia lontano e assente dal Mezzoggiorno d’Italia?
“Lo Stato in tutto il Mezzogiorno d’Italia ha il dovere di essere e di apparire credibile, di offrire alternative concrete ai giovani, di creare opportunità di sviluppo in maniera legale e trasparente. Senza tutto questo l’idea di una reale lotta alla mafia è assolutamente velleitaria”.

Che cos’è l’omertà?
“La rinuncia alla propria dignità imposta dalla paura”.

Che cos’è il senso di appartenenza?
“Qualcosa di cui tutti, soprattutto i giovani, hanno un estremo bisogno. Se le istituzioni, la cultura, la politica, la scuola e la società civile rinunciano ad esercitare la propria funzione e lasciano questo terreno alle organizzazioni criminali, la lotta alla mafia è senza speranza. I giovani hanno bisogno di modelli identificativi, e purtroppo, in alcune realtà, trovano solo quelli offerti dalle organizzazioni criminali”.

E l’onore?
“L’onore è l’idea che ciascuno ha di sé in relazione ad un sistema di valori. Se il sistema di valori non è condiviso, l’onore finisce con l’essere solo un malinteso”.

La mafia è un’organizzazione in crisi?
“Non direi che sia in crisi. Essa è in continua evoluzione, e nessuno può prevedere quali potranno essere le sue forme di adattamento alle novità proposte dal progresso sociale e tecnologico. Ma, come disse Falcone, probabilmente essa è un fenomeno umano che come tale ha un inizio e anche una fine”.

Qual è la Sua preoccupazione oggi?
“La mia preoccupazione è poter continuare a svolgere le funzioni inquirenti con strumenti sufficientemente adeguati alla complessità del fenomeno che si intende contrastare”.

Cosa consiglia ai giovani che leggeranno questa intervista?
“Ai giovani consiglio di non perdere mai la speranza. Il loro futuro se lo costruiscano loro, perché non devono aspettare nessuno. E consiglio anche di non delegare mai ad altri le proprie scelte”.

Cosa direbbe a Giovanni Falcone se fossi qui adesso?
“Gli chiederei di mettere ancora a disposizione le sue capacità, ma non ce ne sarebbe bisogno, so che lo farebbe. Inoltre, gli chiederei dei consigli”.

Qual è il Suo primo pensiero al mattino?
“Che le persone a me care stiano bene”.

E l’ultimo alla sera?
“Lo stesso”.

Le capita mai di mettere in dubbio le Sue certezze riguardo ad un caso su cui ha lavorato e di accorgersi che forse ha commesso un errore?
“Nel processo il dubbio è un elemento fondamentale. E’ uno strumento di lavoro. Attraverso la continua soluzione dei dubbi ci si avvicina alla verità”.

Esiste la Giustizia?
“Kelsen diceva che il singolo non può raggiungere mai la felicità individuale perché l’unica felicità possibile è quella collettiva. La felicità sociale si chiama “giustizia”, che non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che bisogna costruire giorno per giorno. Questa tensione verso la giustiza caratterizza tutta la vicenda umana, senza questa idea di giustizia non può esistere la libertà, non può esistere la felicità, non può esistere il progresso”.

Si sente mai solo?
“Molto spesso. In fondo, lo siamo tutti quanti. Però, l’idea che al mondo ci siano tante persone oneste che perseguono le mie stesse finalità mi fa sentire meglio”.

Alla fine di questa intervista a noi sembra di capire soprattutto una cosa: coloro che ci sembrano limitati nella loro libertà, proprio a causa di una scelta professionale che inevitabilmente comporta delle attenzioni maggiori verso i propri gesti, verso le proprie parole e le proprie più banali decisioni quotidiane, sono forse gli uomini più liberi al mondo; perché, se da un lato, è vero che spesso devono girare sotto tutela, dall’altro, essi possono guardare a testa alta la luce del sole e non temere mai che quella luce ne riveli anche le ombre.

Forse dietro questa scelta c’è tanta rabbia, rabbia verso un mondo che non ha soddisfatto le nostre aspettative ideali, e più questi valori erano sentiti più forte essa sarà; ma anche tanta passione.

Sì, è una scelta d’amore fare il pubblico ministero.