di Noemi Azzurra Barbuto
Non tutti ancora sanno che, per fornire una garanzia ulteriore alla tutela dei diritti dei detenuti, da circa due anni è stata istituita a livello territoriale una figura nuova, ossia quella del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il Comune di Reggio Calabria ha avuto l’intuizione, “segno di grande cultura giuridica e di profonda sensibilità sociale”, secondo l’avv. Agostino M. Siviglia, consulente giuridico dell’Ufficio del Garante di Reggio Calabria, con deliberazione del Consiglio Comunale n.46 del 1 agosto del 2006, di creare questa istituzione e ha nominato in qualità di Garante il dott. Giuseppe Tuccio, che, per la sua lunga e ricca esperienza giuridica, possiede la capacità di comprendere le numerose sfaccettature dell’animo umano, qualità indispensabile per lo svolgimento di questo ruolo.
Il Garante vuole essere un tramite tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile per vincere il pregiudizio e per dare ai detenuti la speranza, ossia “l’opportunità di costruirsi una vita nuova”. Al Garante, che può entrare in carcere senza alcuna autorizzazione, possono rivolgersi sia i detenuti sia coloro che ritengono che ci sia stata una violazione dei diritti dei detenuti, compresi i familiari.
L’Uffucio del Garante opera all’interno del sistema penitenziario, dove ha un proprio ufficio permanente. Il suo compito è quello di garantire che l’esecuzione penale assicuri l’accesso ai diritti costituzionali. Tuttavia, il suo ruolo non si esaurisce una volta riacquistata la libertà, anche perché forse è proprio uscendo dal carcere che il detenuto necessita di maggiore sostegno, affinché il suo reinserimento sociale possa avvenire effettivamente e senza traumi. Al fine di garantire questo tipo di assistenza, è stata creata, con il patto stipulato il 22 maggio del 2008 tra il Ministero della Giustizia, il Comune e la Provincia di Reggio Calabria, la Prefettura e l’Ufficio del Garante, l’Agenzia per l’inclusione sociale, che si occupa in modo particolare del passaggio dalla detenzione al reinserimento post-penitenziario di coloro che appartengono alle fasce deboli, come i tossicodipendenti e i ragazzi, che possono essere facilmente deviati da un ambiente, come quello carcerario, che spesso, invece di favorire l’educazione alla legalità, consolida una scelta criminale come unica opportunità di riscatto.
“Il Garante si occupa di questo: di non far perdere la speranza. Fa colloqui con chiunque chieda di essere ascoltato,
cercando un dialogo al di là dei confini del circuito penale, favorendo il rientro del detenuto nel tessuto sociale attraverso la speranza di lavorare e la giustizia riparativa, cioè l’incontro tra colui che ha commesso il reato e la vittima, al fine di fare percepire al detenuto la sua condizione non come un fardello, bensì come una risorsa per il fututo”.
L’Ufficio del Garante sta riallestendo la biblioteca all’interno del carcere di San Pietro, perché “l’emancipazione culturale può trasformarsi anche in un’emancipazione dal sistema deviante”.
Anche l’avv. Siviglia, specializzato in “Criminalità, devianza e sistema penitenziario”, parla di “situazione implosiva”, nel descrivere lo stato in cui versa il carcere di San Pietro. “La quasi totalità dell’edificio non è a norma, dunque è al di fuori della legalità, come ha sottolineato il Ministro della Giustizia, il quale ha parlato della incostituzionalità del sistema penitenziario italiano, quello reggino non fa eccezione”.
A proposito dell’ultima visita, avvenuta sabato 7 novembre, l’avvocato riferisce: “Abbiamo trovato miglioramenti nella ristrutturazione dei bagni. Ma, in generale, la casa circondariale di Reggio Calabria soffre il fatto che la struttura è molto vecchia, risalendo al 1920-’22. Questo ha ricadute negative sul trattamento penitenziario”.
Il carcere di San Pietro ha una capienza di 160 detenuti, una tollerabilità intorno ai 200 e ne ospita oltre 300. Il sovraffollamento, ci spiega Siviglia, ostacola anche la possibilità di realizzare un trattamento individualizzato, fondamentale nella rieducazione.
Ma cosa risulta indispensabile nel recupero? “E’ importante trasmettere ai detenuti la coscienza di essere cittadini. Devono percepirsi come cittadini, in tal modo sentiranno anche che, scontato il loro debito, ci sarà una città pronta ad accoglierli quando sceglieranno una strada diversa, all’interno della legalità”.
L’avvocato ha lodato il lavoro svolto dalla polizia penitenziaria del carcere di San Pietro, che cerca di sopperire alla mancanza di personale anche attraverso doppi turni. “Gli uomini che lavorano all’interno del carcere, la direttrice, il garante, cercano con grandi sforzi -afferma Siviglia- di sensibilizzare gli organi competenti e la società civile sulle condizioni del sistema penitenziario e sull’esigenza di strutturare un sistema più umano, perché questo avrà dei risvolti positivi anche per la società in termini di sicurezza e di prevenzione”. A questo proposito Siviglia osserva che il carcere si trova ovunque, all’interno degli Stati democratici, nel cuore della città, così è a Reggio Calabria, a Milano, a Roma, proprio perché “la città deve avere la coscienza di farsi carico di questo problema”.
Ma questo basta per comprendere le difficoltà dei detenuti, che forse non escono fuori mai dalla gabbia stretta del pregiudizio né scontano mai la condanna sociale? Siviglia appare scettico su questo punto. Scuote la testa ed afferma: “Calamandrei dice una cosa vera, ovvero che bisogna esserci stati per comprendere. Lo penso anch’io. Certe condizioni bisogna viverle per capirle fino in fondo, o almeno vederle con i propri occhi, per riuscire a coglierne parte del significato. Bisogna sentire l’aria asfittica che si respira all’interno delle carceri per comprendere davvero”. Continua Siviglia: “Lo Stato deve garantire un sistema legale, perché, se non si garantisce la legalità, si è poi poco credibili nel chiederla. E’ come se noi così offrissimo il fianco alla criminalità, suscitando una reazione di rabbia che altrimenti non ci sarebbe”.
Parla di rabbia Siviglia, quella che esplode dentro ai giovani che si sentono traditi, soli, abbandonati da una società
che pretende e che non dà, che punisce e non offre alternative, che condanna e non perdona. Esiste forse un unico modo per placarla, anzi per curare questa ferita. La medicina si chiama “fiducia”. Ne è convinto l’avvocato, secondo il quale, “dare fiducia ai giovani è un modo per responsabilizzarli, con la consapevolezza che poi è il ragazzo l’unico vero protagonista. Le istituzioni hanno il dovere di offrire la possibilità di scegliere, devono mettere al centro l’uomo, portandolo a decidere da solo per il bene senza lasciarlo alla deriva”.
Secondo Siviglia, chi sbaglia rinuncia alla parte migliore di sé. “Vite sospese”, così definisce i giovani detenuti, “a volte incattiviti perché la risposta punitiva non è credibile, vite in attesa di tornare a delinquere con più rabbia e spesso con più pericolosità di prima”.
Ecco che lo Stato fallisce il suo compito: non ha sostenuto chi ne avrebbe avuto più bisogno.
Afferma Siviglia: “La forza della democrazia non risiede nella sua capacità di imprigionare, ma di redimere, di restituire alla società persone nuove. Un livello alto di democrazia comporterà un livello basso di detenuti”.
Ma si può morire di carcere? L’avvocato non ha dubbi: “Si, si può morire di carcere. Il suicidio può essere il gesto estremo al quale conduce la vita all’interno di un sistema penitenziario disumano. Si muore perché non ci sono prospettive, o perché ci si sente falliti, o per il lacerante senso di colpa, o perché ci si sente inadeguati. Si muore persino perché si ha paura di uscire fuori e di non essere accettati”.
Chiediamo infine all’avvocato un consiglio da dare ai detenuti. A noi sembra essere valido per tutti: “Consiglio,
soprattutto ai giovani detenuti, di puntare sulla propria fragilità, perché soltanto lì, nella propria coscienza di sé, si trova la forza di non avere più paura”.
Ecco cosa serve dunque: il coraggio di non avere paura. Spesso ciò che consideriamo un handicap può rappresentare il nostro punto di forza. I nostri errori, i nostri difetti, le nostre debolezze, ciò che rifiutiamo di noi stessi, costituiscono degli aspetti da valorizzare, da mostrare agli altri, delle occasioni di miglioramento di noi stessi e della nostra vita.
Anche l’esperienza negativa della detenzione può essere un’opportunità quando porta il detenuto a prendere coscienza del reato e a scegliere un cammino diverso dalla devianza. Ma, affinché ciò si realizzi, risultano indispensabili il ruolo dello Stato e quello della società civile, in particolare, quest’ultima deve diventare, così come afferma Siviglia, “la famiglia del ragazzo che delinque, una famiglia capace di accoglierlo, per non privarci della nostra parte migliore”.