di Noemi Azzurra Barbuto
“Timeo Danaos et dona ferentes”, ovvero “temo i Greci anche quando portano doni”, scrive Publio Virgilio Marone nell’ Eneide. Da questo si evince che egli probabilmente la conoscesse la pericolosità del dono, perché, spesso, dietro le vesti della generosità si maschera l’interesse, e il regalo, in questo caso, non costituisce che uno strumento con il quale si obbliga, facendolo, e ci si obbliga, accettandolo.
Come non ricordare il celebre cavallo di legno donato ai troiani dai greci, che, fingendo la resa, si accingono a tornare in patria dopo dieci lunghi anni di guerra intorno alle mura di Troia. I poveri ingenui, per non fare torto alla divinità, accolsero entro le mura inespugnabili delle città il cavallo, che in realtà nascondeva nel suo ventre i più valorosi tra i guerrieri greci, i quali nottetempo misero a ferro e fuoco la città.
Tutto questo grazie all’idea brillante dell’astuto Ulisse. Fu proprio lui a suggerire questo artificio.
Sì, aveva fretta di tornare a casa, nella sua amata e rocciosa Itaca, Ulisse, e ricorrere alla strategia-dono gli parve la soluzione più opportuna per portare a termine una battaglia che sembrava destinata a non spegnersi mai; lo sapeva bene anche lui, da bravo acheo, che i doni non si rifiutano mai.
E fu così che con un dono piovuto dal cielo, che irrompe sulla scena come un deus ex machina per i greci e come un deus per i troiani, un’intera e prospera città fu rasa al suolo.
Non dimentichiamo che noi reggini, essendo stata la provincia di Reggio Calabria colonia greca, abbiamo ereditato dai greci diverse abitudini, credenze, modi di essere e di fare. Uno di questi usi è il rispetto che si ha nei confronti di coloro che giungono da fuori. Sia amico oppure estraneo, l’ospite assume ancora oggi, come succedeva una volta, quasi un aspetto sacrale. E’ questa l’ospitalità che ci caratterizza.
E nel nostro DNA culturale abbiamo anche il cromosoma del dono. Da noi di doni se ne fanno tanti, forse troppi, osservazione questa che fece anche il giudice Giovanni Falcone in una celebre intervista che la giornalista Marcelle Padovani raccolse insieme alla altre e inserì nel suo libro “Cose di Cosa Nostra”.
Ma cos’è in effetti il dono? Sorpresa che ha una logica e una prevedibilità, pesante leggerezza, non ha che lo scopo, nelle intenzioni di colui che lo fa, di legare a sé colui che lo riceve, e che non può non accettarlo (pena l’esclusione dal contesto sociale, l’isolamento), in una sottile trama di inestricabili cortesie; uno scambio di favori che, una volta che ha preso il via, difficilmente si arresta, infinito a causa del debito che di volta in volta lo scambio stesso produce. Ed ecco creato il rapporto sociale.
Diversi studiosi hanno indagato il significato e il valore del dono. Tra questi Marcel Mauss, il quale, nel suo “Saggio sul dono”, partendo dall’analisi di alcune società arcaiche, arrivò ad individuare nel dono una forma primitiva di mercato. Per Mauss il dono è un “fenomeno sociale totale”, appunto un mezzo per stabilire relazioni tra i gruppi, una forma di scambio che implica tre obblighi: dare, ricevere, ricambiare. Egli osservò che ciò che viene donato ritorna sempre al donatore più tardi e sotto un’altra forma.
Si tratta di un “do ut des”, nulla di più. Sarebbe come dire: “Ti faccio oggi questo dono affinché tu domani possa ricambiarlo a me nel modo in cui a me sarà utile”. Ed è chiaro che tale intento uccide del tutto l’elemento caratterizzante del dono: la gratuità.
Dunque, il dono come collante sociale, come cemento di rapporti di diverso tipo; ma anche manifestazione di potere di colui che dona o che riceve, a seconda del valore del dono stesso; manifestazione persino di sottomissione da parte del donatore o del ricevente, a seconda delle situazioni; il dono come garanzia, come contratto sociale, come obbligazione più che come donazione, obbligazione a tempo indeterminato alla quale il ricevente non può sottrarsi a priori, proprio perché “un dono non si rifiuta mai”.
Ma perché da noi il dono sopravvive ancora ed è tanto diffuso? Facciamo tanti doni perché siamo generosi o perché siamo terribilmente insicuri e sentiamo ancora il bisogno di quella garanzia alla base dei nostri rapporti sociali necessaria nelle società arcaiche studiate da Mauss?
Forse il dono non è altro che la sopravvivenza di una categoria economica tipica delle società primitive in cui sono assenti il mercato e le leggi che lo regolano; o semplicemente sopravvive dove queste regole, sebbene esistano e siano applicate, non sono profondamente sentite. Potremmo ipotizzare così che il dono un giorno scomparirà, vinto dal mercato, e forse i nostri doni saranno allora scevri di interesse, non corrotti da secondi fini. Ma resta difficile crederlo.
Concludiamo con le parole di Kahlil Gibran, tratte da “Il profeta”: “Donerete ben poco se donerete i vostri beni. E’ quando fate dono di voi stessi che donate veramente. […] C’è chi dà poco del molto che possiede – e lo dona perché sia riconosciuto -, e il suo desiderio nascosto rende il dono corrotto. E vi sono quelli che hanno poco e lo danno per intero. […] E’ bene dare se ci viene chiesto, ma è meglio dare non richiesti, per averlo capito. […] Badate prima che voi stessi siate degni di essere donatori, e strumenti del donare. Perché in verità è la vita che dona alla vita, mentre voi, che vi credete donatori, non siete che testimoni. E voi che ricevete – e tutti ricevete -, non vi addossate un carico di gratitudine, se non volete un giogo su di voi e su colui che vi ha donato. Piuttosto sollevatevi con lui, e siano ali i suoi doni; perché se il vostro debito vi pesa troppo, mettete in dubbio il suo disinteresse a cui è madre la Terra generosa e padre Dio”.