Archive for the ‘Giustizia’ Category

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Inaugurata la casetta in legno per i familiari dei detenuti

Maggio 13, 2010

di Noemi Azzurra Barbuto

È una piccola e confortevole casetta in legno, costruita all’interno della casa circondariale di San Pietro a Reggio Calabria e dotata di giochi, la struttura destinata ad accogliere i familiari dei detenuti in visita, inaugurata ieri mattina e benedetta dall’arcivescovo Monsignor Vittorio Mondello.

Hakuna Matata, questo il nome della casa, porrà finalmente fine alle estenuanti attese dei familiari fuori dai cancelli del carcere esposti alle intemperie, provvedendo in particolare ad attutire l’impatto traumatico dei bambini con il ferroso edificio carcerario, come ha sottolineato l’assessore comunale alle politiche sociali Tilde Minasi.

Si tratta di un piccolo mondo a misura di bambino, alla cui organizzazione e gestione provvederà l’associazione contro il disagio sociale “Il Ponte”, con una serie di interventi, che vanno dal dialogo all’orientamento al lavoro, rivolti ai detenuti e alle loro famiglie.

«Una prova di attenzione verso la persona umana», l’ha definita l’arcivescovo, la colorata struttura, realizzata con il contributo dell’amministrazione comunale di Reggio Calabria e dell’Ufficio del Garante dei diritti dei detenuti, che ha fortemente sostenuto il progetto, è stata costruita «con la manodopera dei detenuti che hanno lavorato duramente notte e giorno», ha spiegato la direttrice del carcere Maria Carmela Longo.

Le pareti, affrescate dagli studenti dell’accademia delle Belle Arti di Reggio Calabria con immagini che riprendono scene del celebre film della Walt Disney “Il re leone”, vogliono ricordare il messaggio del film stesso: non conta quanto sia pesante il passato che ci portiamo dietro, occorre concentrarsi sul presente, guardando al futuro con ottimismo.

Dopo la benedizione del locale, si è tenuta una conferenza, sempre all’interno della casa circondariale, per presentare la terza relazione annuale dell’Ufficio del Garante.

Appuntamento ormai tradizionale «per riflettere su ciò che abbiamo fatto e dove vogliamo andare per dare maggiore dignità ai detenuti», ha spiegato Longo.

Ha illustrato l’andamento dell’attività del suo ufficio ma soprattutto l’atrocità del sistema carcerario attuale il garante Giuseppe Tuccio.

Una situazione di perenne emergenza, secondo Tuccio, alla quale si cerca erroneamente di fare fronte mediante interventi maldestri che derogano al principio rieducativo che sta alla base del sistema penitenziario.

Sarebbe piuttosto opportuna una riforma organica del sistema legale delle pene, ma «non resta che constatare come la stagione delle riforme strutturali tarda davvero ad apparire sull’orizzonte politico del nostro Paese», ha concluso Tuccio.

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Il rito arbitrale ed i suoi vantaggi

dicembre 1, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

Per incidere efficacemente sul problema, particolarmente grave in Italia, della eccessiva durata dei processi, è possibile ricorrere al rito arbitrale, che costituisce un metodo moderno ed efficace di risoluzione delle controversie, alternativo alla via giudiziaria.

E’ stato questo il tema affrontato ieri pomeriggio dagli studenti del liceo classico “T. Campanella”, in occasione del primo dei cinque appuntamenti che si inseriscono nell’ambito del progetto annuale “Costituzioni a confronto”, promosso dalle docenti Liliana Veneziano, Filippa Quattrone, Francesca e Mattia Maria Neri.

L’obiettivo del progetto è quello “di avvicinare i ragazzi al mondo politico-istituzionale e di approfondire lo studio della nostra costituzione – ha spiegato la preside Maria Quattroneanche attraverso il confronto con le costituzioni degli altri Paesi europei“.

Nel corso del primo incontro i ragazzi hanno partecipato ad una simulazione del rito arbitrale a scopo didattico, guidati dal professore, nonché coordinatore scientifico della Corte Arbitrale Europea, Luciano Delfino, dagli avvocati Giuseppe Lombardo ed Alfredo Foti, e dalla coordinatrice Duilia Delfino.

I principali vantaggi del rito arbitrale, che può avere ad oggetto esclusivamente i diritti disponibili (come quelli patrimoniali), rispetto al processo civile italiano, come ha spiegato Delfino, sono la riduzione notevole dei tempi necessari per la risoluzione della controversia e l’abbassamento dei costi delle procedure.

La crisi della giustizia è evidente – ha affermato il professore, ricordando che l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte di Giustizia europea per la lunghezza dei processi – i ritardi endemici, che superano la ragionevole durata del processo, nonché la farraginosità di tutto il sistema, rendono necessario un sistema alternativo alla giustizia statale per arrivare alla soluzione dei problemi”.

Delfino, che ritiene che le riforme che il governo sta portando avanti, nonostante gli sforzi, produrranno scarsi risultati, ha puntualizzato che, per poter ricorrere al rito arbitrale, è necessario sia che entrambe le parti siano preventivamente d’accordo a fare ricorso a questo tipo di giurisdizione sia che dichiarino di accettare il regolamento e le clausole della Corte Arbitrale Europea.

L’arbitro unico e specializzato, chiamato a pronunciarsi entro nove mesi, non emetterà la sentenza, bensì il lodo, impugnabile davanti al tribunale di primo grado.

La velocità del rito arbitrale non costituisce un pericolo nella tutela dei diritti, piuttosto una sua ulteriore garanzia, dato che, come sostiene Delfino, “una giustizia ritardata è sempre una cattiva giustizia“.

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Il cavallo di ritorno e le sue conseguenze: premi assicurativi alle stelle

novembre 29, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

È sempre nei mesi di novembre e dicembre, a ridosso delle feste natalizie, che nella nostra città aumentano i furti di automobili e motocicli, restituiti al legittimo proprietario previo pagamento di un riscatto, che varia a seconda del tipo di mezzo e del suo stato, ma che di solito oscilla tra i 500 e i 2,000 euro.

Tale pratica illegale, chiamata “cavallo di ritorno” e molto diffusa nel Mezzogiorno, produce gravi ripercussioni sia sociali che economiche, tuttavia è sottovalutata dalle vittime, dal momento che si è soliti considerare questi crimini minori rispetto a quelli connessi alle attività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso.

«Provai un senso di rabbia misto a disperazione la prima volta che mi fu rubata la macchina – racconta un abitante reggino – qualcuno mi disse di rivolgermi agli zingari, ma io già lo sapevo. Qui lo sanno tutti cosa bisogna fare in questi casi. Pagai 1000 euro. Dopo qualche ora qualcuno mi chiamò per indicarmi il luogo in cui era stata lasciata la mia macchina. Un mese dopo mi ritrovai nella stessa situazione». Episodi del genere succedono tutti i giorni in questa città, ormai non ci si stupisce più.

«Nelle regioni del Sud siamo giunti ad una sorta di assuefazione», così Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria, definisce l’atteggiamento di indifferenza e di rassegnazione del cittadino che subisce una violazione dei suoi diritti.

Quando certi comportamenti, che travalicano i confini della legalità, smettono di scandalizzarci, quando a causa della loro frequenza ci appaiono normali e, di conseguenza, li accettiamo, vuol dire che all’interno della società c’è qualcosa di patologico che ostacola un’inversione di rotta, nonché lo sviluppo.

Infatti, non è solo un certo tipo di mentalità a produrre determinati comportamenti, ma sono anche questi ultimi che, sedimentati e tollerati da tutti, generano un modo di pensare, di essere, di fare, di reagire/non agire, che si inscrive nella società intera e diventa dominante.

Si tratta di “norme consuetudinarie” non scritte che tutti gli appartenenti alla comunità conoscono. Una di queste è quella che prevede che il cittadino non si rivolga alle forze di polizia, ma agli zingari, quando subisce il furto della sua autovettura.

Quali le conseguenze? Innanzitutto, quando anche uno solo dei cittadini accetta il compromesso e paga, i criminali acquistano forza, sulla base della consapevolezza che possono farla franca e che questo tipo di attività rende dal punto di vista economico, dunque continueranno a fare furti e a chiedere riscatti. Per questo il cittadino, credendo di fare qualcosa di utile per se stesso, produrrà in realtà un danno a tutti quanti ed anche a se stesso, ponendo le condizioni per essere derubato ancora. In secondo luogo, aumenterà il sentimento di sfiducia da parte dei cittadini nei confronti delle forze di polizia, che non sono state poste nelle condizioni di svolgere il loro lavoro. Questa sfiducia, a sua volta, nutrirà il crimine, producendo un circolo vizioso.

Dal punto di vista strettamente economico, il cittadino ne uscirà gravemente leso, pur ritenendo di avere risolto la sporca faccenda nel migliore dei modi, in quanto al costo ingente del riscatto versato si aggiungeranno quelli relativi alla riparazione dei danni materiali del mezzo causati dai criminali durante il furto. Aumenteranno poi, per tutti quanti, i premi assicurativi.

Non è un caso che nella città di Reggio Calabria il costo dell’assicurazione contro il furto e l’incendio abbia un costo superiore rispetto a quello praticato in altre città italiane.

Ecco alcuni dati: un cittadino di sesso maschile per assicurare la sua autovettura, una Lancia Ypsilon, con INA Assitalia spende a Reggio Calabria 382,97, a Como 212,07; con Milano Assicurazioni a Reggio 380,00 euro, a Como 176,00; con AVIVA a Reggio 340,50, a Como 227,00.

Quindi, i cittadini reggini spedono per assicurare i propri mezzi contro il furto e l’incendio ben il 215% in più rispetto a quelli di numerose altre città italiane.

Abbiamo parlato con coloro che gestiscono piccole attività commerciali nella zona di Ciccarello/Modena per comprendere come vivono a stretto contatto con la minoranza rom che abita nel loro quartiere e che da sempre è dedita a questo tipo di reati.

Ciò che è emerso è stato soprattutto un sentimento latente di paura. Qualcuno ha negato l’esistenza di queste attività illecite, affermando che si tratti solo di «leggende metropolitane», altri hanno parlato a bassa voce, raccontando ciò che vedono tutti giorni e l’ultimo furto di un’automobile avvenuto il giorno prima, in pieno giorno, ai danni di un malcapitato in sosta per un caffè.

La società meridionale non gradisce la mafia, ma non fa nulla di veramente incisivo per combatterla; lamenta gli alti costi delle tasse statali, ma continua a pagare anche quelle imposte dalla criminalità organizzata; nutre sfiducia nei confronti delle forze di polizia, ma non le favorisce nell’espletamento del loro dovere.

Come uscirne? Secondo Gratteri, è importante innanzitutto fornire i mezzi alle forze dell’ordine, affinché garantiscano una presenza effettiva e capillare su tutto il territorio, intervenendo tempestivamente anche in questi casi; in secondo luogo, inasprendo le pene, per disincentivare i malviventi, rendendo questi reati meno convenienti. Infine, secondo il procuratore, risulta fondamentale sensibilizzare i cittadini, per convincerli a fidarsi delle istituzioni, ponendo così le condizioni affinché non si venga derubati ancora domani.

Di vitale importanza, inoltre, risulta essere la creazione di opportunità lavorative per la minoranza rom insediata nella città di Reggio Calabria, affinché la strada del crimine non risulti essere l’unica percorribile. Si tratta di un obiettivo certamente difficile da raggiungere, non solo a causa del problema della disoccupazione, che da sempre caratterizza la zona, ma anche del forte pregiudizio nei confronti di una comunità, come quella rom, che vive da sempre chiusa e ripiegata in se stessa.

Qualsiasi attività economica è soggetta al fallimento, dunque anche quelle illecite. Se i cittadini smettono di rivolgersi agli zingari e decidono di restituire fiducia agli organi competenti, le conseguenze non potranno che essere positive su tutti i fronti: diminuzione dei furti, creazione di un clima di fiducia, fondamentale per lo sviluppo economico, abbassamento anche dei premi assicurativi.

Se è vero che sono i comportamenti dei cittadini a determinare la mentalità sociale, è anche vero che modificando i primi cambierà anche la seconda. E forse un giorno non lontano potremo anche noi scandalizzarci davanti a questa mancanza di senso: pagare chi ci ha sottratto qualcosa di nostro.

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Il ruolo del Garante dei diritti dei detenuti: un ponte di speranza tra il sistema penitenziario e la società civile

novembre 8, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

chiaviNon tutti ancora sanno che, per fornire una garanzia ulteriore alla tutela dei diritti dei detenuti, da circa due anni è stata istituita a livello territoriale una figura nuova, ossia quella del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale.

Il Comune di Reggio Calabria ha avuto l’intuizione, “segno di grande cultura giuridica e di profonda sensibilità sociale”, secondo l’avv. Agostino M. Siviglia, consulente giuridico dell’Ufficio del Garante di Reggio Calabria, con deliberazione del Consiglio Comunale n.46 del 1 agosto del 2006, di creare questa istituzione e ha nominato in qualità di Garante il dott. Giuseppe Tuccio, che, per la sua lunga e ricca esperienza giuridica, possiede la capacità di comprendere le numerose sfaccettature dell’animo umano, qualità indispensabile per lo svolgimento di questo ruolo.

Il Garante vuole essere un tramite tra le istituzioni totalizzanti penitenziarie e la società civile per vincere il pregiudizio e per dare ai detenuti la speranza, ossia “l’opportunità di costruirsi una vita nuova”. Al Garante, che può entrare in carcere senza alcuna autorizzazione, possono rivolgersi sia i detenuti sia coloro che ritengono che ci sia stata una violazione dei diritti dei detenuti, compresi i familiari.

L’Uffucio del Garante opera all’interno del sistema penitenziario, dove ha un proprio ufficio permanente. Il suo compito è quello di garantire che l’esecuzione penale assicuri l’accesso ai diritti costituzionali. Tuttavia, il suo ruolo non si esaurisce una volta riacquistata la libertà, anche perché forse è proprio uscendo dal carcere che il detenuto necessita di maggiore sostegno, affinché il suo reinserimento sociale possa avvenire effettivamente e senza traumi. Al fine di garantire questo tipo di assistenza, è stata creata, con il patto stipulato il 22 maggio del 2008 tra il Ministero della Giustizia, il Comune e la Provincia di Reggio Calabria, la Prefettura e l’Ufficio del Garante, l’Agenzia per l’inclusione sociale, che si occupa in modo particolare del passaggio dalla detenzione al reinserimento post-penitenziario di coloro che appartengono alle fasce deboli, come i tossicodipendenti e i ragazzi, che possono essere facilmente deviati da un ambiente, come quello carcerario, che spesso, invece di favorire l’educazione alla legalità, consolida una scelta criminale come unica opportunità di riscatto.

“Il Garante si occupa di questo: di non far perdere la speranza. Fa colloqui con chiunque chieda di essere ascoltato,carcere1 cercando un dialogo al di là dei confini del circuito penale, favorendo il rientro del detenuto nel tessuto sociale attraverso la speranza di lavorare e la giustizia riparativa, cioè l’incontro tra colui che ha commesso il reato e la vittima, al fine di fare percepire al detenuto la sua condizione non come un fardello, bensì come una risorsa per il fututo”.

L’Ufficio del Garante sta riallestendo la biblioteca all’interno del carcere di San Pietro, perché “l’emancipazione culturale può trasformarsi anche in un’emancipazione dal sistema deviante”.

Anche l’avv. Siviglia, specializzato in “Criminalità, devianza e sistema penitenziario”, parla di “situazione implosiva”, nel descrivere lo stato in cui versa il carcere di San Pietro. “La quasi totalità dell’edificio non è a norma, dunque è al di fuori della legalità, come ha sottolineato il Ministro della Giustizia, il quale ha parlato della incostituzionalità del sistema penitenziario italiano, quello reggino non fa eccezione”.

A proposito dell’ultima visita, avvenuta sabato 7 novembre, l’avvocato riferisce: “Abbiamo trovato miglioramenti nella ristrutturazione dei bagni. Ma, in generale, la casa circondariale di Reggio Calabria soffre il fatto che la struttura è molto vecchia, risalendo al 1920-’22. Questo ha ricadute negative sul trattamento penitenziario”.

Il carcere di San Pietro ha una capienza di 160 detenuti, una tollerabilità intorno ai 200 e ne ospita oltre 300. Il sovraffollamento, ci spiega Siviglia, ostacola anche la possibilità di realizzare un trattamento individualizzato, fondamentale nella rieducazione.

Ma cosa risulta indispensabile nel recupero? E’ importante trasmettere ai detenuti la coscienza di essere cittadini. Devono percepirsi come cittadini, in tal modo sentiranno anche che, scontato il loro debito, ci sarà una città pronta ad accoglierli quando sceglieranno una strada diversa, all’interno della legalità”.

thumbL’avvocato ha lodato il lavoro svolto dalla polizia penitenziaria del carcere di San Pietro, che cerca di sopperire alla mancanza di personale anche attraverso doppi turni. “Gli uomini che lavorano all’interno del carcere, la direttrice, il garante, cercano con grandi sforzi -afferma Siviglia- di sensibilizzare gli organi competenti e la società civile sulle condizioni del sistema penitenziario e sull’esigenza di strutturare un sistema più umano, perché questo avrà dei risvolti positivi anche per la società in termini di sicurezza e di prevenzione”. A questo proposito Siviglia osserva che il carcere si trova ovunque, all’interno degli Stati democratici, nel cuore della città, così è a Reggio Calabria, a Milano, a Roma, proprio perché “la città deve avere la coscienza di farsi carico di questo problema”.

Ma questo basta per comprendere le difficoltà dei detenuti, che forse non escono fuori mai dalla gabbia stretta del pregiudizio né scontano mai la condanna sociale? Siviglia appare scettico su questo punto. Scuote la testa ed afferma: “Calamandrei dice una cosa vera, ovvero che bisogna esserci stati per comprendere. Lo penso anch’io. Certe condizioni bisogna viverle per capirle fino in fondo, o almeno vederle con i propri occhi, per riuscire a coglierne parte del significato. Bisogna sentire l’aria asfittica che si respira all’interno delle carceri per comprendere davvero”. Continua Siviglia: “Lo Stato deve garantire un sistema legale, perché, se non si garantisce la legalità, si è poi poco credibili nel chiederla. E’ come se noi così offrissimo il fianco alla criminalità, suscitando una reazione di rabbia che altrimenti non ci sarebbe”.

Parla di rabbia Siviglia, quella che esplode dentro ai giovani che si sentono traditi, soli, abbandonati da una societàcarcere che pretende e che non dà, che punisce e non offre alternative, che condanna e non perdona. Esiste forse un unico modo per placarla, anzi per curare questa ferita. La medicina si chiama “fiducia”. Ne è convinto l’avvocato, secondo il quale, dare fiducia ai giovani è un modo per responsabilizzarli, con la consapevolezza che poi è il ragazzo l’unico vero protagonista. Le istituzioni hanno il dovere di offrire la possibilità di scegliere, devono mettere al centro l’uomo, portandolo a decidere da solo per il bene senza lasciarlo alla deriva”.

Secondo Siviglia, chi sbaglia rinuncia alla parte migliore di sé. “Vite sospese”, così definisce i giovani detenuti, “a volte incattiviti perché la risposta punitiva non è credibile, vite in attesa di tornare a delinquere con più rabbia e spesso con più pericolosità di prima”.

Ecco che lo Stato fallisce il suo compito: non ha sostenuto chi ne avrebbe avuto più bisogno.

Afferma Siviglia: La forza della democrazia non risiede nella sua capacità di imprigionare, ma di redimere, di restituire alla società persone nuove. Un livello alto di democrazia comporterà un livello basso di detenuti”.

Ma si può morire di carcere? L’avvocato non ha dubbi: “Si, si può morire di carcere. Il suicidio può essere il gesto estremo al quale conduce la vita all’interno di un sistema penitenziario disumano. Si muore perché non ci sono prospettive, o perché ci si sente falliti, o per il lacerante senso di colpa, o perché ci si sente inadeguati. Si muore persino perché si ha paura di uscire fuori e di non essere accettati”.

Chiediamo infine all’avvocato un consiglio da dare ai detenuti. A noi sembra essere valido per tutti: “Consiglio,speranza soprattutto ai giovani detenuti, di puntare sulla propria fragilità, perché soltanto lì, nella propria coscienza di sé, si trova la forza di non avere più paura”.

Ecco cosa serve dunque: il coraggio di non avere paura. Spesso ciò che consideriamo un handicap può rappresentare il nostro punto di forza. I nostri errori, i nostri difetti, le nostre debolezze, ciò che rifiutiamo di noi stessi, costituiscono degli aspetti da valorizzare, da mostrare agli altri, delle occasioni di miglioramento di noi stessi e della nostra vita.

Anche l’esperienza negativa della detenzione può essere un’opportunità quando porta il detenuto a prendere coscienza del reato e a scegliere un cammino diverso dalla devianza. Ma, affinché ciò si realizzi, risultano indispensabili il ruolo dello Stato e quello della società civile, in particolare, quest’ultima deve diventare, così come afferma Siviglia, “la famiglia del ragazzo che delinque, una famiglia capace di accoglierlo, per non privarci della nostra parte migliore”.

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Un sistema al collasso: trasformare le carceri da luoghi di morte in luoghi di vita nuova

novembre 7, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

arresto-carcere-manette_17847Il livello di democraticità di un Paese è direttamente proporzionale alla qualità del funzionamento del suo sistema penitenziario, ossia al modo in cui garantisce e tutela i diritti di coloro che subiscono delle limitazioni alla propria libertà personale per provvedimento penale.

Il vilipendio dei diritti umani dei detenuti, la mancanza di considerazione nei loro confronti, l’indifferenza da parte della società civile, le condizioni di indigenza e di disumanità nelle quali sono costretti a vivere, infatti, si accompagnano spesso ad una generale assenza di rispetto delle libertà fondamentali e ad un sistema culturale deficitario, o fallimentare.

I gulag staliniani, quelle turche, quelle cinesi, sono esempi estremi di carceri tipiche di sistemi politicilagogai_chinese_prisoner antidemocratici, sono nomi che, evocati, ci fanno rabbrividire, realtà che purtroppo non appartengono solo al passato.

Ma esistono delle eccezioni, ovvero carceri inumane di Paesi democratici. Un esempio emblematico è rappresentato dal carcere statunitense situato nella Baia cubana di Guantanamo, dove sarebbero rinchiuse 250 persone collegate, secondo il governo americano, ad attività terroristiche.

Sarà a causa di una crisi economica dalla quale stentiamo a risollevarci, o per una generale caduta dei valori democratici, o per l’indifferenza prolungata da parte delle istituzioni, che spesso, in Italia, affrontano un problema solo quando assume dei caratteri di vera e propria emergenza, tamponandolo maldestramente, ma è innegabile che oggi, anche nel nostro Paese, sta emergendo sempre di più una situazione di grave disagio e sofferenza da parte degli istituti penitenziari, all’interno dei quali la vita dei detenuti diventa sempre più dura e vuota, tanto che aumenta progressivamente il numero dei suicidi, delle proteste e persino delle evasioni. Fenomeno quest’ultimo quasi del tutto scomparso fino a poco tempo fa e che adesso si ripresenta con prepotenza, soprattutto a causa della carenza di efficaci sistemi di controllo e di personale deputato alla vigilanza, nonché del disagio diffuso dei detenuti, costretti a convivere in spazi sempre più ristretti ed inadeguati.

carcere_sovraffollato_NUn sistema che sta per scoppiare. E’ con queste parole che la dott.ssa Maria Carmela Longo, direttrice del carcere di San Pietro di Reggio Calabria, descrive lo stato attuale del sistema penitenziario nazionale, dipingendo una situazione di collasso, un meccanismo che rischia di saltare, che non regge più.

Si parla di “allarme nazionale”: a fronte di una capacità di 43.074 ospiti, sono 65.225 i detenuti nelle carceri italiane, di questi 24.085 sono stranieri, 31.346 in attesa di giudizio; da gennaio ad oggi si sono verificati 60 suicidi, 146 i detenuti morti in carcere quest’anno. Questi sono alcuni dei numeri diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.

Il numero dei suicidi aumenta di pari passo con l’aumento del numero dei detenuti e con la diminuzione di quello degli agenti di polizia penitenziaria.

Se ci fossero più esperti, più personale e maggiori risorse economiche per fare lavorare i detenuti, queste tragedie non si verificherebbero con una tale frequenza”, afferma la direttrice a proposito del fenomeno dei suicidi nelle carceri. Anche in questa struttura due casi di suicidio da gennaio, tra questi anche un ragazzo di 20 anni.

Per compiere un gesto così estremo come togliersi la vita, occorrono molta disperazione e l’incapacità ormai dicarcere vedere uno spiraglio, una via d’uscita, una possibilità di evasione non dal carcere stesso, bensì da una vita senza prospettive, che diventa priva di senso e di scopo quando non si ha la possibilità di rendersi utili quotidianamente attraverso il lavoro, che, secondo la dott.ssa Longo, costituisce “l’aspetto predominante nel recupero, insieme agli affetti familiari”.

La direttrice esprime la sua amarezza per l’avere dovuto interrompere tutte le attività dei detenuti, non solo quelle lavorative, ma anche alcuni programmi importanti, tra i quali il “progetto avvocato amico”, per fornire consulenza legale gratuita ai tanti detenuti che non hanno la possibilità di pagarla, sospeso per la mancanza di un locale idoneo a questo scopo; nonché i lavori per la costruzione di un’ala destinata all’accoglienza dei parenti in visita, che spesso sono costretti ad aspettare fuori dai cancelli per ore ed esposti alle intemperie. Ma non stupisce tutto questo, dal momento che “non si riesce a garantire neanche il necessario. A stento vengono realizzati i servizi essenziali di cucina, lavanderia e le pulizie”.

Ma non sono soltanto i detenuti a ricorrere al suicidio quasi per liberarsi dal peso di una condizione sempre più opprimente, aumenta anche il numero dei suicidi da parte del personale penitenziario.

“E’ come un bollettino di guerra”, afferma Longo. Ma perché succede tutto questo? “E’ un lavoro duro, troppo duro, che grava spesso su una sola persona, ed è un lavoro che coinvolge inevitabilmente dal punto di vista emotivo -continua la direttrice- non è facile vedere una persona che si squarta né trovarsi davanti un ragazzo impiccato”. Con un sorriso, come se volesse mitigare la violenza delle immagini appena evocate, la dott.ssa Longo si scusa per questa sua crudezza. Ma forse non esiste un altro modo per descrivere questa realtà.

carcere-27Il carcere cambia per sempre. A volte in meglio. A volte in peggio. A volte diventi più duro. A volte, paradossalmente, più umano. Cambia chi ci deve vivere. Cambia chi ci lavora.

La direttrice Longo, “per deformazione professionale”, si occupa di tanti problemi, di tante richieste, di tanti impegni, tutti in una volta, secondo un ordine di priorità soggetto a cambiare da un minuto all’altro. Ora risponde alle nostre domande, un attimo dopo corre fuori per un’emergenza, una delle tante di ogni giorno. Alla fine, risolve ogni cosa, ma il senso di dolore resta. Quello non si può eliminare, purtroppo.

La dott.ssa Longo ha imparato a sviluppare anche la creatività, e si sa quanto sia utile nei periodi magri. “Ci tocca inventarci di tutto – confessa-, non ci sono materassi. Siamo riusciti ad averne 50, devono ancora arrivare, ma i detenuti sono 300, così ho deciso di dare la priorità ai detenuti che ne hanno più bisogno per motivi di salute. Spesso ci troviamo nella situazione simile a quella in cui si trova un padre che ha 5 figli e le risorse per vestirne uno solo. Noi cerchiamo di amministrare secondo il principio del buon padre di famiglia, questo è il nostro dovere, ma non è facile”.

jpg_1696541Sovraffollamento (30% dei detenuti sono stranieri di tutte le nazionalità), carenza di agenti, condizioni di vita difficili, mancanza di risorse economiche, strutture inadeguate e vecchie, sono questi i problemi più urgenti del carcere di Reggio Calabria, difficoltà comuni alla maggior parte degli istituti penitenziari italiani.

Qual è l’esigenza prioritaria adesso? Secondo la direttrice, sarebbe necessario riavere i 50 agenti di cui l’istituto è stato privato e che sono attualmente impegnati in altre sedi. Ed aggiunge: “Non sto chiedendo niente di più, soltanto di ripristinare la situazione precedente”.

Chiediamo se le violenze all’interno delle carceri, sia tra i detenuti sia da parte del personale nei confronti dei detenuti, costituiscano una realtà o siano soltanto un sospetto dell’opinione pubblica. La dott.ssa Longo ci risponde che “le violenze succedono in casa, per strada, in qualsiasi luogo, e siamo tutti esposti. Non è solo in carcere, questa brutta bestia, che si verificano episodi di violenza. Il carcere è lo specchio della società, qui si svolgono le stesse dinamiche. In ogni famiglia si litiga per motivi banali di convivenza, sebbene ci siano il vincolo di sangue e l’amore. Qui le persone, invece, non si sono scelte, non c’è la possibilità di uscire o di cambiare stanza quando nascono delle tensioni, spesso in uno spazio adeguato per due persone ce ne stanno quattro, con abitudini, cultura, educazione, nazionalità che non hanno nulla a che fare. E’ inevitabile che a volte nasca la violenza”. E ancora, a proposito degli abusi di potere da parte del personale: “Purtroppo la violenza è nella natura dell’essere umano, un istinto primordiale e sempre sbagliato. Essendo qualcosa di umano questi fenomeni possono verificarsi, ma vanno controllati e severamente puniti. Non devono essere tollerati”.

Infine, chiediamo alla direttrice se, quando si muore in carcere, si muore di carcere. “Quando una personacarcere2 decide di farla finita, ha mille motivi nella testa che noi non conosciamo. Posso immaginare che si possa morire di carcere. Certo, non lo posso escludere. Le volte in cui cerco di immedesimarmi nella condizione dei detenuti subentra in me uno stato di profonda tristezza”.

Rispettando i diritti umani dei detenuti, garantendo loro la possibilità di lavorare, di svolgere delle attività ricreative, finalizzate alla rieducazione e al reinserimento sociale, non si fa nulla di straordinario, ma qualcosa di normale, che non deve essere messo in discussione in un regime democratico. Attualmente le cose non stanno così in Italia, dove l’emergenza-carceri diventa sempre più tragica, anche a causa delle forti ondate di immigrazione che ci hanno coinvolto in maniera più diretta rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea.

In un Paese democratico le carceri non devono essere un luogo in cui si sceglie di morire, bensì un luogo in cui si sceglie di rinascere sulla base di valori più positivi.

 

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Al cinema per imparare il diritto. Intervista al prof. Francesco Manganaro

novembre 4, 2009

di Noemi Azzurro Barbuto

ManganaroSiamo stati tutti bambini e tutti ricordiamo le difficili lotte davanti ai libri aperti nel tentativo di imparare divisioni, verbi e tabelline a memoria. Non è facile studiare per imparare. Da diversi anni ormai psicologi e pedagogisti affermano che i bambini imparano più facilmente attraverso il gioco, che è stato definito un ottimo strumento di conoscenza. Inoltre, se il bambino prova piacere nell’apprendimento, difficilmente dimenticherà ciò che ha imparato ed avrà desiderio di imparare di più.

Una formula vincente, dunque, che può essere estesa anche agli studenti universitari. Anche loro, infatti, non sono amanti delle lunghe giornate trascorse a ripetere difficili concetti nel tentativo, spesso vano, in vista del prossimo esame, di fissarli in una memoria che, non trovandoli interessanti, continua a rifiutarli.

Prof. Manganaro, ritiene che attraverso il cinema si possa imparare in modo più produttivo ed efficace il diritto?
“Sì. Si tratta di un metodo consolidato, attraverso la visione di un film la realtà viene compresa in modo più immediato. Per quanto riguarda il film di stasera, che è una pietra miliare del cinema italiano, esso affronta, pur essendo un film del ‘63, problemi assai attuali, quali il rapporto tra politica ed economia, lo sviluppo delle città e la qualità della vita, la corruzione amministrativa come impedimento allo sviluppo locale, d’altronde, il crollo di una casa come immagine iniziale del film ricorda eventi recenti”.

Qual è il messaggio più forte di questo film (“Le mani sulla città” di Francesco Rosi)?
“Alla fine del film si usa una metafora, che è quella di trasformare i sudditi in cittadini. Questo, a mio avviso, è il senso più profondo del film: in una realtà meridionale fortemente degradata e clientelare è indispensabile riconoscere i diritti di cittadinanza a tutti e, soprattutto, alle fasce più disagiate. D’altronde nel film, dove si rappresenta una politica fortemente connessa con la speculazione economica, vi sono anche figure positive di persone impegnate in politica per realizzare ideali di rinnovamento sociale”.

Possiamo sostenere che il cinema degli anni sessanta in qualche modo anticipa la nascita del moderno giornalismo d’inchiesta televisivo in Italia?
“Non sono un esperto in materia, ma sicuramente i film del neorealismo italiano sono il segno di un impegno civile che, subito dopo l’uscita dalla guerra, intendeva costituire una società rinnovata e più giusta”.

Il problema diffuso dell’abusivismo nella nostra città implica un pericolo reale per la sicurezza dei cittadini?
“Lo sviluppo della nostra città è uno sviluppo in cui l’abusivismo edilizio è assolutamente predominante, tanto che il costruito è assolutamente esorbitante rispetto alle reali esigenze dei cittadini. C’è, da un lato, un problema di sicurezza; dall’altro, un problema di qualità della vita, dato che si è sviluppata una città poco vivibile, con pochi spazi pubblici, senza spazi verdi. Alcune grandi inchieste giudiziarie dimostrano che anche la qualità delle costruzioni realizzate per speculazioni economiche non è adeguata ai normali standard di sicurezza”.

Cosa pensa dell’iniziativa del Cine-forum?
“Penso che iniziative come questa, che consentono un dibattito, aiutino a sviluppare una coscienza collettiva che sia in grado di maturare in cambiamento sociale. Di fronte a certi eventi, anche di natura calamitosa, non possiamo restare indifferenti, perché, alla fine, coinvolgono anche noi”.

Ecco come un’occasione di svago e di divertimento come l’andare al cinema può trasformarsi in un’opportunità per imparare, per confrontarsi, per discutere circa argomenti che ci riguardano da vicino, ma soprattutto per pensare, è forse questo l’obiettivo principale del Cine-forum, perché, come afferma il prof. Manganaro, “solo se non pensiamo, restiamo una società sottosviluppata”.

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Il grave crimine del pregiudizio

ottobre 31, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

48b408ef21e06_normal“Sovente vi ho sentiti parlare di chi ha sbagliato come se non fosse uno di voi, ma un estraneo e un intruso nel vostro mondo”. Da “Il Profeta” di K. Gibran.

L’esigenza di ordine e di sicurezza insita nella società spesso ci porta ad etichettare gli altri, costringendoli in ruoli dai quali difficilmente ci si affranca, ma, soprattutto, negando loro, il dono più grande che possiamo fare al nostro prossimo: la fiducia. Essa forse non è altro che la possibilità di essere migliori e di avere una vita migliore.

Il pregiudizio verso gli altri, verso coloro che per qualche ragione consideriamo diversi e che per questo temiamo, è sempre un fatto grave, ma lo è ancora di più quando ha per oggetto i giovani.

Sono ragazzi come tutti gli altri, con le loro fragilità, i loro dubbi, le loro domande; con i loro sogni e le loro speranze; fanno sport, studiano, cercano un lavoro e un loro posto nel mondo. Ciò che forse li distingue dagli altri è la difficoltà maggiore che incontrano nel credere in qualcosa di migliore, nel sognare, nello sperare, perché spesso ciò che portano sulle spalle è un bagaglio pesante di dolori, che rende più faticoso e più lento il passo.

Lo sa bene Mariarosa Morbegno, direttrice della Comunità Ministeriale di Reggio Calabria, l’unica struttura residenziale della Giustizia Minorile, che costituisce un’opportunità per mantenere i minori in misura restrittiva senza sradicarli dal loro contesto territoriale e che accoglie, per tempi medio-lunghi, i minori in misura cautelare, in messa alla prova, sottoposti a misure alternative alla detenzione o di sicurezza.

purpleflowerMorbegno afferma, a proposito dei suoi ragazzi: “Sono quasi tutti giovani che provengono da famiglie problematiche e che per questo hanno delle gravi carenze dal punto di vista affettivo, sociale e culturale; inoltre, manca loro una rete di supporto che possa favorirne l’inserimento sociale e lavorativo. Fin da bambini spesso hanno vissuto delle situazioni di profondo disagio, ma è come se lo Stato si accorgesse di loro solo quando commettono il reato”.

Ci sorge quasi il dubbio che questi ragazzi non sbaglino proprio per farsi sentire, per urlare al mondo intero che esistono.

La Comunità minorile non è una prigione. La sede è un vecchio convento francescano, in cui si trovano ubicati, oltre alla Comunità, anche il Tribunale per i Minorenni, la Procura presso il Tribunale per i Minorenni e il Centro di Prima Accoglienza. Basta questo per capire che lo spazio è inadeguato per tutti questi uffici e che sarebbero necessari altri locali.

E’ sabato mattina ed i ragazzi anche oggi si dedicano alle loro quotidiane attività in un ampio cortile con giardino.

Sembra che da qui i giovani ospiti non vogliano scappare, non ce ne sarebbe la ragione, dal momento che i cancelli sono aperti e non ci sono sbarre né manette. Ci chiediamo se tutto questo non risponda ad una logica precisa: mettere alla prova i ragazzi. Si tratta di fare comprendere loro che nessuno li costringe, che si trovano qui per un loro errore, ma possono trovare delle opportunità. “Uscirne” davvero non è oltrepassare una porta serrata, piuttosto è cambiare percorso di vita.

Ma ciò che stupisce maggiormente è il calore che trapela dalle parole della Morbegno quando parla dei suoi ragazzi. E’ quella preoccupazione tipica di chi vorrebbe il meglio per i giovani, di chi li comprende senza giudicarli, soprattutto di chi spera per loro un futuro felice. Sono sentimenti che sembrano appartenere a tutti coloro che lavorano all’interno di questi uffici e che nel corso di questi anni hanno conosciuto tanti ragazzi (dal 1998, anno in cui questo servizio è stato istituito, ad oggi ne sono stati ospitati 165), tante storie diverse, eppure tragicamente simili. L’emarginazione è la matrice comune per molti di loro.

Forse è facile accogliere questi giovani ed è poi molto difficile lasciarli andare, quando si è consapevoli che rientrano nei contesti che li hanno indotti a commettere reati.

Abbiamo rivolto alcune domande alla Morbegno per capire i problemi che i ragazzi incontrano nell’inserirsi nuovamente nella società e anche le difficoltà che si trova a fronteggiare la stessa Comunità in un periodo di crisi economica, dal quale stiamo pure uscendo, ma che continua e far pesare quotidianamente su tutti le sue conseguenze.

Come funziona la Comunità Ministeriale?
“La comunità accoglie ed ospita i minori che hanno commesso dei reati, entrano per provvedimento penale e poi, per ognuno di loro, si avvia un progetto educativo personalizzato: scuola, o orientamento al lavoro. Abbiamo inoltre una serie di progetti ai quali i ragazzi si dedicano quotidianamente: manutenzione dell’edificio demaniale e del giardino adiacente, attività manuali, come il decoupage, laboratorio di cucina, o di musica. Per quanto riguarda le attività esterne, abbiamo diverse convenzioni con organismi ed associazioni come la Caritas Diocesana, il C.O.N.I., le Suore Francescane Alcantarine, l’Agesci, l’Associazione “LIBERA nomi e numeri contro le mafie” e l’ARCI. In particolare con la Caritas c’è un ottimo rapporto di collaborazione. Qui aiutiamo i ragazzi a partire dal reato per giungere, attraverso un percorso di riflessione, all’acquisizione di una responsabilizzazione, perché spesso i giovani commettono reati senza una vera e propria consapevolezza, magari trascinati dal gruppo. Successivamente si avvia un percorso di inserimento sociale. Tendiamo a creare dei momenti di incontro con ragazzi che vivono in condizioni che non sono di disagio, affinché ci sia uno scambio di esperienze per una maturazione reciproca. Quest’anno abbiamo promosso anche un percorso di educazione alla cittadinanza e alla legalità”.

Come si finanzia?
“La Comunità viene finanziata e dipende dal Dipartimento di Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia”.

Le risorse che ricevete sono sufficienti?
“Sono sufficienti per l’odierna amministrazione. Quest’anno per i minori sono stati stanziati fondi sufficienti sia per il mantenimento che per le attività. I veri problemi sono la ristrutturazione e l’ampliamento dei locali. Un’altra carenza è la mancanza di fondi per finanziare i tirocini formativi per i minori per la realizzazione dell’inserimento lavorativo”.

Quanti minori ospitate?
Abbiamo una capienza massima di 4 posti, sebbene l’esigenza del territorio sia quella di averne a disposizione di più. A causa di questo limite i ragazzi spesso vengono mandati fuori regione, rendendodifficoltoso per i parenti andare a trovarli. Per questa ragione sarebbero necessari maggiori spazi e maggiori locali. Il lato positivo di questa situazione è che essa ci consente di avere una dimensione molto familiare”.

Per quanto riguarda le cure mediche?
“Dal 2008 abbiamo una convenzione con la Sanità Penitenziaria, che ha sostituito quella precedente con la A.S.L. e che garantisce sia le prestazioni generiche che specialistiche: prestazioni sanitarie, infermieristiche, psicologiche”.

Questi ragazzi incontrano numerose difficoltà nell’inserimento professionale. Sembra che, dopo aver sbagliato una volta, la società stessa li condanni a sbagliare ancora, non concedendo loro altre possibilità. Lei ricorda qualche ragazzo che sia riuscito a realizzare un cambiamento importante di vita?
“Si, fortunatamente ne conosciamo più di uno. Molti ragazzi sono usciti dalla devianza e hanno dato una svolta significativa alla loro vita. Ciò che risulta essere fondamentale in questa riuscita è che siano stati loro stessi a capire che avrebbero potuto farlo. A volte non sono soltanto gli altri a non crederlo possibile, ma anche i ragazzi stessi finiscono con il convincersi che per loro non ci siano altre possibilità. Vengono stigmatizzati, così per loro è difficile percepirsi in chiave positiva. Ma non è impossibile”.

In questi recuperi quanto è stato cruciale il ruolo della Comunità?
“Noi dobbiamo riconoscere i nostri limiti. La Comunità non ha un potere magico. Essa può fare poco da sola. E’ necessario un lavoro di rete: famiglia, scuola, mondo del lavoro, agenzie di socializzazioneed educative. Inoltre, non si tratta di un processo automatico, meccanico, in cui ad una certa azione corrisponde sicuramente una certa reazione. Si tratta di materiale umano, di ragazzi. E’ come la parabola del seminatore. Noi cerchiamo di piantare dei semi, poi non sempre questi attecchiscono nel modo giusto. Ognuno risponde a suo modo e la risposta dipende molto dalle potenzialità del ragazzo e dal contesto familiare”.

Vi è capitato di ospitare anche ragazzi provenienti dai circuiti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso?
“Si, ragazzi sia del contesto cittadino che della tirrenica e della ionica. Ed è trovandosi davanti a questi ragazzi che si capisce che c’è un legame familiare fortissimo e che per loro rinnegare l’appartenenza alla ‘ndrangheta equivarrebbe a tradire la loro stessa famiglia, il loro padre, fratello, zio, o cugino. Ma questa estate è successo un fatto che offre spunti significativi al nostro impegno. Nel mese di luglio i ragazzi hanno partecipato ad un campo di lavoro organizzato dall’ARCI sui beni confiscati alla mafia. In quell’occasione un ragazzo ha fatto una riflessione importante: la vita del mafioso è infelice, perché è destinato o a morire o ad andare in carcere, un destino questo al quale non si può sfuggire”.

Sì, è infelice il destino di colui che non ha scelta, che non ha davanti una porta aperta per poter decidere se restare dentro o uscire fuori.

A volte è una società che non perdona, a volte una famiglia che impone delle scelte indiscutibili, ma, in verità, solo i ragazzi dovrebbero essere artefici del proprio futuro, perché la loro vita appartiene soltanto a loro stessi. Non devono dimenticarlo: esiste sempre un’altra strada.

Negare loro la possibilità di intraprenderla e la speranza di qualcosa di migliore è forse il vero crimine non perdonabile, eppure per il quale si resta impuniti.Segnaletica_al_Bivio

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Al via con il colonnello Angelosanto i progetti didattico culturali di Riferimenti

ottobre 30, 2009

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di Noemi Azzurra Barbuto

È un piccolo appartamento confiscato alla criminalità organizzata e poi concesso dal nostro comune per l’utilizzo a fini sociali quale sede dell’organizzazione di volontariato “Riferimenti”. Ed è qui in via XXV Luglio, nella zona nord della città di Reggio Calabria, che si sono incontrati il presidente dell’associazione “Riferimenti”, Adriana Musella, e il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Pasquale Angelosanto, accompagnato dal comandante della Compagnia cittadina, capitano Nicola De Tullio, alla presenza di tutti gli studenti dell’ultimo anno della scuola media statale “Galileo Galilei”.

Un’occasione per scoprire nella sede nazionale dell’organizzazione, che è presente su buona parte del territorio italiano, la targa dedicata all’ingegnere salernitano Gennaro Musella, padre di Adriana, ucciso dalla mafia il 3 maggio del 1982; ma anche per ricordare tutte le vittime della violenza criminale attraverso il simbolo della gerbera gialla, un fiore che rappresenta il dolore dei lutti ma, nello stesso tempo, la rinascita della speranza di creare nuove etiche collettive.

E portano il nome di “Gerbera Gialla” i progetti didattico-culturali di Riferimenti, di cui l’incontro di oggi con la scuola media non è che una felice partenza. Musella infatti spiega che altre scuole della città, a rotazione, parteciperanno a questi appuntamenti educativi, perché, «per contrastare la criminalità organizzata, non basta – afferma la Musella – l’opera della magistratura e delle forze dell’ordine, c’è bisogno di qualcosa di più grande, bisogna creare una cultura della legalità».

«La via sono i ragazzi», ne è convinta Musella, che racconta di come, fino a pochi anni fa, venisse negata da tutti persino l’esistenza della mafia. Molte cose sono cambiate da allora, ma molte ancora restano da realizzarsi. «Non è frequente questo tipo di contatto con gli alunni delle scuole, ma è qualcosa di molto positivo, perché è da voi che dipende il futuro», queste le parole di Angelosanto ai ragazzi, che hanno dimostrato molta curiosità riguardo ai metodi di indagine e alle attività dell’Arma dei Carabinieri. Numerosi sono stati i temi affrontati, dal traffico internazionale di sostanze stupefacenti all’usura, dal riciclaggio di denaro sporco al gioco d’azzardo.

Il comandante provinciale ha spiegato anche perché la ‘ndrangheta sia più potente rispetto alle altre organizzazioni criminali, ossia a causa della sua struttura familiare, che, legando con il sangue tutti i suoi affiliati, la rende inattaccabile, dal momento che rinnegarne l’appartenenza equivarrebbe a tradire il padre, o il fratello, o lo zio.

«Le forze di polizia non possono superare queste difficoltà – ha affermato Angelosanto – serve la collaborazione da parte di tutti i cittadini». Ecco perché ad un ragazzo che chiede un consiglio da dare ai cittadini Angelosanto risponde: «Denunciate sempre tutte le prevaricazioni di cui restate vittime. Fatelo senza timore, perché, se tutti facciamo la nostra parte, il risultato sarà positivo».

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Una magistratura con le armi spuntate: intervista al procuratore aggiunto della Dda Nicola Gratteri

ottobre 29, 2009

di Noemi Azzurra Barbuto

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È un dedalo di lunghi corridoi. Facile perdersi camminando all’interno del palazzo di giustizia di Reggio Calabria. È qui che incontriamo il procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia Nicola Gratteri.

Sorride Gratteri, lui che è solito non lasciare trasparire nessuna emozione quando lavora e assume l’atteggiamento di un chirurgo intento ad eseguire con il suo bisturi una delicata operazione, adesso può scherzare e spiegarci il suo metodo infallibile per orientarsi in questo labirinto. Se lo applichi, non ti perdi mai.

Ci fidiamo, perché ne ha inventati e applicati tanti di metodi Gratteri per orientarsi lungo maglie ben più intricate, per penetrare nei meandri oscuri delle organizzazioni criminali. Un metodo. Che cos’è un metodo? Secondo Giovanni Falcone «qualcosa di decisivo, di grande spessore. Senza un metodo non ci si capisce niente».

E qual è il metodo di Gratteri? Qualcosa di duttile, ma che ha alla base un principio fondamentale: «Vado avanti nel mio lavoro per due ragioni: io non ho il senso del limite né il senso della paura».

Se hai paura, ti fermi. Se non metti in conto ogni possibilità, rischi di vedere realizzato ciò che non avevi previsto. Se ti lasci vincere dalle emozioni, diventi miope davanti alla realtà. Fallisci. No, un magistrato non può permetterselo. Ecco il motivo per cui Nicola Gratteri non smette mai di lavorare se non una settimana l’anno, durante la quale non si distacca mai dal suo telefonino, perché «potrebbe essere necessario essere presente». La sua vita è il suo lavoro.

È con Gratteri che vogliamo affrontare un argomento spinoso, cioè quello relativo alla modifica della disciplina delle intercettazioni, prevista dal ddl Alfano.

L’intercettazione nel diritto processuale penale italiano è un mezzo di ricerca della prova tipico ed è uno strumento di cui la magistratura e gli investigatori si servono per condurre le loro indagini. Il suo uso si è rivelato fondamentale e decisivo nella cattura di importanti latitanti, tra i quali lo stesso Bernardo Provenzano.

A causa del moltiplicarsi incontrollato di continue interferenze nella vita privata dei cittadini e dell’emergere del problema della divulgazione delle intercettazioni stesse, il governo Berlusconi ha elaborato un progetto di riforma che interviene drasticamente nella materia. Infatti, da un lato, vengono ridotti i casi in cui è consentito ricorrere alle intercettazioni, tenendo poco conto delle esigenze investigative della magistratura; dall’altro, in nome di una maggiore tutela della privacy, viene fortemente ridimensionata la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, colpendo un diritto fondamentale dell’uomo quale la libertà di espressione, intesa sia dal lato attivo che dal lato passivo, cioè sia come diritto ad informare che come diritto ad essere informati.

gratteri_2In pratica, come ci spiega nel dettaglio Gratteri, se il ddl dovesse essere convertito in legge, per un pubblico ministero sarà molto più difficile richiedere e ottenere l’autorizzazione ad intercettare; in alcuni casi le intercettazioni diventeranno impossibili, o perché il procedimento è contro ignoti o perché non esistono “gravi indizi di colpevolezza” (prima erano sufficienti “gravi indizi di reato”); dopo il sessantesimo giorno le intercettazioni dovranno comunque essere interrotte. Inoltre, la pubblicazione del loro contenuto sarà sottoposto a forti restrizioni, con severe sanzioni a carico dei trasgressori (editori e giornalisti).

Il ddl Alfano ha suscitato, per tutti questi motivi, perplessità e timori da parte dell’opinione pubblica, della magistratura e del mondo dell’informazione.

Chiediamo a Gratteri che peso hanno le intercettazioni nelle indagini di mafia.
«Le mafie, come la società civile, utilizzano per le loro attività, sia lecite che illecite, i mezzi, gli strumenti, la tecnologia, e quindi anche i telefonini, utili per la realizzazione delle attività rispettivamente lecite ed illecite. Quindici anni fa i telefoni cellulari erano poco usati, quindi la polizia giudiziaria cercava di intercettare i telefoni di cui aveva la conoscenza numerica, di cui sapeva l’esistenza. Appena sono stati inventati e distribuiti in commercio i telefonini mobili non era possibile intercettarli, dopo circa un anno è stato inventato uno strumento, la valigetta, che rendeva necessario seguire la persona da intercettare. Nel ’93 mi è capitato di intercettare un riciclatore della ‘ndrangheta che andava a riciclare nell’Est europeo e che utilizzava il cellulare, ma che purtroppo viaggiava su una ferrari, o una maserati biturbo. Poi la tecnologia si è perfezionata e abbiamo iniziato ad intercettare tutti i telefonini senza seguirli. Successivamente è stato utilizzato il sistema di trasmissione GSM. Anche in questa circostanza non abbiamo avuto la possibilità di intercettare, ed una volta creata la tecnologia per poterlo fare, era possibile intercettare non più di trecento telefonini in Italia. Questo per dire che i sistemi di intercettazione hanno sempre inseguito la tecnologia che il mercato immette per l’uso civile. Partendo da quegli anni, con quei pochi mezzi, oggi si è arrivati al punto che in Italia ogni cittadino ha in media un telefonino e mezzo. Tutte le attività, sia lecite, che di natura privata, che di natura illecita, avvengono tramite l’uso diffuso del cellulare. Quindi c’è un massiccio utilizzo della tecnologia sia per scopi leciti che illeciti. È inevitabile che, se si vuole dimostrare la commissione di un reato, è necessario intercettare un gran numero di telefonini».

Dunque non si può parlare di abuso da parte della magistratura dello strumento dell’intercettazione, eppure il ministro Alfano ha individuato la ratio della riforma proprio nell’uso smodato delle intercettazioni, che ha reso necessaria la tutela della privacy dei cittadini. Egli ha affermato che i magistrati non lavorano solo con le cuffie, sminuendo così il valore delle intercettazioni. Cosa ne pensa?
«I grandi numeri relativi alle intercettazioni riportati dal Ministero della Giustizia traggono in inganno l’opinione pubblica, perché, quando si fanno dei grafici e si danno dei numeri di statistica, a seconda dei parametri che io stabilisco, quegli stessi numeri possono sembrare assai o pochi. Recentemente ho fatto un’indagine per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti nei confronti di 53 persone. Queste sono state intercettate un anno, un anno e mezzo, due. Per intercettare queste persone, è stato necessario intercettare 10.500 telefonini. Se io sono una persona onesta, dirò che sono state intercettate 53 persone; se io non sono una persona onesta, dirò che sono state intercettate 10.500 persone. In pratica, il trafficante di cocaina fa un numero di telefono e parla con il cugino per 15-20 secondi, senza dire come si chiama, senza fare nomi, modificando il tono della voce, fornisce notizie sul carico che sta arrivando in Europa, poi butta la scheda e all’estero ne compra una nuova, anonima, o intestata ad una persona morta, quindi, alla telefonata successiva avrà un nuovo numero. Di conseguenza io, ogni giorno, ogni settimana, ogni due settimane al massimo, nei confronti della stessa persona dovrò chiedere una nuova intercettazione. Questo giochino viene fatto da tutti gli indagati. Cambiano tutti scheda per disperdere le loro tracce. E noi cerchiamo di arrivarci nuovamente, di raggiungerli. Questo è un esempio. Io nell’arco di un anno faccio dieci di queste indagini, moltiplichiamo questo esempio per tutte le procure d’Italia, 27, ecco perché poi abbiamo quei grandi numeri».

Quanto costa un’intercettazione?
«Rispondo con un altro esempio, perché ritengo che così la gente possa comprendere meglio. Mettiamo il caso che io debba pedinare una persona, che ritengo stia commettendo un reato, da Reggio Calabria a Roma. Ho due modi per sapere in quale casa o in quale ufficio si reca: o metto sotto controllo il suo cellulare o lo pedino, in quest’ultimo caso, con un’altissima possibilità di essere scoperto. Se mi servo del telefono, questa operazione mi costa 12 euro più iva nell’arco delle 24 ore. Invece, se non posso utilizzare il cellulare, devo organizzare un pedinamento, quindi impiegare due o tre macchine, con a bordo due o tre persone, con il rischio di perdere il soggetto lungo il viaggio, o nel traffico della capitale, di essere scoperti, con costi elevatissimi dal punto di vista economico. Questo esempio rende chiara l’importanza dello strumento dell’intercettazione, che non è solo utile ma anche economico».

In uno stato democratico è più importante tutelare la privacy dei cittadini o il loro diritto ad essere informati? Come si raggiunge un equilibrio tra queste due esigenze?
«Tutto sta alla deontologia e alla sensibilità del giornalista. Il diritto all’informazione è importante perché è attraverso l’informazione che i cittadini si formano una coscienza di ciò che accade nel mondo, ma spesso, per la brama di uno scoop, si creano danni alle indagini e quindi alla tutela della collettività».

Pentiti e intercettazioni: cosa è più utile alla magistratura?
«Nella prima metà degli anni ’90 c’è stato il boom dei collaboratori di giustizia perché dal punto di vista normativo era utile esserlo. Specifico che uso il termine “collaboratori di giustizia” e non quello di “pentiti” non a caso, innanzitutto perché la norma non prevede che si dichiarino pentiti; in secondo luogo, perché non si sono pentiti mai, hanno collaborato, ma non hanno mai dichiarato di essere pentiti. Ad ogni modo, essi sono stati uno strumento importante e formidabile, perché per decenni c’erano stati omicidi irrisolti e indagini che non si riusciva mai a portare alla fase del dibattimento. Col tempo questo fenomeno si è andato affievolendo, sia perché era un fatto fisiologico (in quel momento c’era tanta gente disposta a collaborare), sia perché ci sono state delle modifiche normative tali da non rendere più conveniente collaborare. Le intercettazioni sono rimaste lo strumento più garantista ed economico per l’acquisizione della prova. Più garantista perché, se c’è l’intercettazione, si tratta della voce del protagonista, che non può essere modificata, non può essere una verità storpiata; mentre, un collaboratore di giustizia, essendo un essere umano, può raccontare un fatto in modo diverso da quello che è stato nella realtà, anche involontariamente. Quindi l’intercettazione è una forma di prova di assoluta valenza».

giovanni_falconeIn particolare Gratteri ci spiega come l’introduzione del metodo del patteggiamento in appello (abrogato dal primo decreto legge dell’attuale governo), che consentiva una forte riduzione di pena nel momento in cui in Corte di appello si trovava un accordo tra l’avvocato e il pm di udienza (sostituto procuratore generale), abbia reso molto più conveniente andare in carcere ed uscirne presto, piuttosto che collaborare con la giustizia e fare i conti dopo con un’organizzazione mafiosa piena di voglia di pareggiare i conti con il sangue. Dunque, lo Stato depotenziò allora lo strumento dei collaboratori di giustizia (come disse lo stesso Falcone: «Non mi stupisce che qualcuno si sia pentito di essersi pentito»), e ora vuole privare la magistratura di un altro mezzo indispensabile per le indagini, le intercettazioni, inceppando la macchina della giustizia, invece di renderla più veloce; burocratizzandola ulteriormente, invece di snellirla, aumentando la faraginosità del processo penale; rendendo, inoltre, sempre più probabile il rischio che la magistratura resti indietro, dal punto di vista dell’uso delle moderne tecnologie, contro una criminalità sempre più attrezzata e all’avanguardia. Sembra quasi che la nostra magistratura debba lottare non solo contro la criminalità, facendo così il proprio dovere, ma anche per restare in possesso di quegli strumenti di lavoro che le spettano, esattamente come al chirurgo il bisturi.

Cosa prova un magistrato che si vede all’improvviso privato dei suoi strumenti di lavoro?
«Prova grande amarezza, però bisogna stringere i denti, andare avanti e fare bene il proprio lavoro, con fedeltà alle istituzioni e non mollando mai per non fare il gioco degli sporcaccioni».

Pensa davvero che i politici fanno leggi a loro vantaggio?
«Chiunque è al potere non vuole essere controllato, condizionato, quindi non tollera un sistema giudiziario forte. Molti parlamentari sono in buonafede; molti non conoscono l’argomento, quindi votano a seconda di ciò che dice il capogruppo; altri sono in malafede; altri ancora sanno di creare un danno per la collettività, ma non per il centro di potere che rappresentano».

Con questa riforma lo Stato, tutelando la privacy dei cittadini, non rischia di nuocere alla loro sicurezza?
«È ovvio che, se dovesse entrare in vigore la legge, non avremmo più il polso della situazione, nessun controllo sulle mafie, e, quindi, la collettività risulterebbe meno tutelata».

Pensa che nei paesi cosiddetti “civili” dell’Occidente, compresa l’Italia, valori quali la libertà di pensiero, di espressione, la democrazia stessa, siano traguardi ormai raggiunti per sempre o sempre in pericolo?
«Io dico che la democrazia, quei valori che a noi sembrano assoluti, inamovibili, certi, in verità, non lo sono. Essi non sono né sicuri né assodati e noi dobbiamo stare attenti, giorno per giorno, che qualcuno non ce li rubi e non ci spogli di quei valori che stanno alla base della nostra Repubblica. Essi non costituiscono certezza granitica, automatismo. L’opinione pubblica non si deve assuefare a certe spallate, a certe espressioni forti, né bisogna riderne o sorriderne».

Platone auspicava ne “La Repubblica” un governo retto dai filosofi, cioè uomini giusti. È quello che auspica anche lei?
«Io mi auspico una maggiore coerenza tra ciò che si fa e ciò che ognuno di noi dovrebbe fare per quello che è il proprio ruolo e la propria funzione. Siamo tutti bravi ad essere pensatori, grandi strateghi, però poi, nel nostro lavoro, non siamo coerenti. Se lo fossimo, tutto sarebbe diverso e non saremmo in questa situazione».

Alla fine dell’intervista ci chiediamo quando un metodo risulta essere efficace. Probabilmente quando è al passo con i tempi. Giovanni Falcone diceva che «le informazioni invecchiano e i metodi della lotta devono essere continuamente aggiornati». La mafia questo sa farlo e lo fa molto bene; lo Stato, invece, sta dimostrando ancora di non saperlo fare, o di non volerlo fare. E chissà cosa direbbe oggi il giudice Falcone, il quale insistette spesso sul ruolo indispensabile delle intercettazioni, soprattutto nell’ambito delle indagini realtive al traffico di stupefacenti, se sapesse che la magistratura corre il rischio di essere privata della possibilità di servirsi di questo strumento, (rischio che corriamo tutti, perché sono in gioco qui la nostra sicurezza e la nostra libertà). Forse non si stupirebbe. E oggi è sempre più difficile combattere e vincere una guerra armati di clava e di martello!

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A tu per tu con il pm della Dda Antonio De Bernardo

ottobre 28, 2009

antoniodi Noemi Azzurra Barbuto

Coraggiosi eroi dal lungo mantello nero e dal volto scoperto, ma anche uomini, come tutti quanti noi, pieni di dubbi, di malinconie, di paure. Le mettono da parte però in nome di un ideale più grande, nel quale, nonostante tutto, non hanno mai smesso di credere. E’ questa la forza: essere uomini ma continuare a credere anche quando tutto intorno crolla e tu ti accorgi tra le macerie di essere rimasto da solo a farlo, anzi credere proprio per questo con maggiore intensità.

Sono i sostituti procuratori della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), istituita presso la Procura della Repubblica del tribunale di ventisei capoluoghi di distretto di Corte d’appello, i quali, in tutta Italia, si impegnano quotidianamente nella lotta alla criminalità organizzata.

Ecco cosa significa davvero “dedicare la propria vita al lavoro”: non si tratta soltanto delle numerose ore, sia diurne che notturne, trascorse ad indagare, ad interrogare, a studiare, a ricostruire ogni parola, ogni gesto, ogni fatto, in cerca della verità; ma anche e soprattutto della perdita, volontaria ma non per questo meno sofferta, di tante piccole libertà che noi diamo per scontate e che, in effetti, tali dovrebbero essere anche per coloro che stanno sul fronte della legalità.

In un mondo perfetto chi sbaglia calpestando i diritti degli altri dovrebbe nascondersi e temere; ma questo mondo è terribilmente imperfetto e pieno di assurde contraddizioni, così succede che uomini onesti debbano rinunciare a parte della propria libertà personale proprio in nome della Libertà e della Giustizia, per costruire una società migliore in cui vivere tutti alla luce del sole.

Ma cosa c’è dietro questa scelta? Per comprenderlo abbia rivolto alcune domande ad un sostituto procuratore antimafia della DDA di Reggio Calabria, il Dott. Antonio De Bernardo. Sul suo viso scorgiamo un senso di forza consapevole, una calma sicura che sembra derivare dalla coscienza, ormai fin troppo chiara, della realtà del mondo in cui viviamo; ma non è rassegnazione, piuttosto è volontà di non lasciarsi scivolare giù, mentre tutto il resto scivola.

Cosa ne pensa del rapporto tra mafia e politica?
“La politica è la sede in cui la collettività prende le sue decisioni più importanti, soprattutto in settori cruciali dell’economia, e, quindi, è inevitabile che un’entità parassitaria come la mafia tenti di inserirsi nei processi decisionali; d’altra parte, la mafia è in grado di controllare consistenti pacchetti di voti e questo crea, in alcuni casi, una sorta di simbiosi molto pericolosa con parte delle istituzioni. Il rapporto andrebbe scardinato, ma questo compito non spetta soltanto alla magistratura”.

Gli avvenimenti degli anni di fuoco della lotta alla mafia, ’92-’93, l’hanno toccata in qualche modo?
“Nessun cittadino e nessun magistrato potrà mai dirsi non toccato da quelle vicende, che hanno determinato in me la spinta propulsiva verso la mia scelta professionale”.

Quali pensieri e quali sensazioni suscitò in Lei l’assassinio di Giovanni Falcone?
“Suscitò in me sentimenti di rabbia e di profonda tristezza, insieme alla convinzione che da quel punto bisognasse necessariamente iniziare a reagire seguendo il suo esempio”.

La mafia dovrebbe essere combattuta agendo su più fronti: istituzionale, culturale, politico, sociale. Secondo Lei, in cosa dovrebbe consistere l’impegno da parte dei giovani?
I giovani devono riavvicinarsi al valore della legalità, anzi devono proprio riscoprirlo come valore, perché oggi c’è la tendenza a considerare il rispetto della legalità come una limitazione della libertà, invece è l’unica strada per raggiungerla davvero.

“Mi viene in mente una frase di Rousseau, “Avrei voluto vivere e morire libero, cioè tanto sottomesso alle leggi che né io né alcuno avesse potuto sentirne il giogo onorevole, giogo salutare e dolce, che le teste più orgogliose sopportano tanto più docilmente quanto più sono fatte per non portarne nessun altro”.

Giovanni Falcone diceva a proposito di se stesso: “Non sono Robin Hood né un kamikaze e tantomeno un trappista. Sono semplicemente un servitore dello Stato in terra infidelium”. Lei si ritrova in questa definizione?
“Sicuramente sì, anche se a volte le condizioni sono talmente difficili che il magistrato può sentirsi o apparire davvero come Robin Hood, o come un kamikaze, o come un trappista. Quando questo accade, vuol dire che c’è nel sistema qualcosa di patologico che deve essere corretto”.

La mafia deve essere combattuta ancora nel territorio in cui è nata, nonostante abbia assunto caratteristiche transnazionali?
“Sicuramente è innegabile il suo carattere transnazionale, un aspetto su cui forse si è concentrata in ritardo l’attenzione degli operatori, tuttavia è sempre nelle sfortunate terre del meridione d’Italia che le cosche prendono le loro decisioni, hanno i loro vertici e la loro forza. Quindi l’azione repressiva non può prescindere da un costante monitoraggio dell’attività dei sodalizi criminosi nei territori di origine”.

Quanto il Suo lavoro condiziona la Sua vita privata?
“Condiziona molto la mia vita privata, innanzitutto per la mole di lavoro e anche per i profili relativi alla sicurezza. Ma sono limitazioni che si mette in conto di dovere accettare nel momento stesso in cui si decide di occuparsi di antimafia”.

Giovanni Falcone disse: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”. Secondo Lei, egli fu ucciso dalla mafia o lo uccise piuttosto l’essere stato lasciato da solo a combattere una battaglia troppo grande per un solo uomo, quindi il non essere stato supportato adeguatamente dallo Stato? E’ questa la solitudine a cui è condannato l’eroe che diventa scomodo per la sua grandezza?
“Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia. E’ indubbio che la magistratura in prima linea nella lotta alla mafia deve sempre poter contare – pur nella normalissima dialettica istituzionale -, sul costante e visibile appoggio della società civile e di tutte le istituzioni, appoggio senza il quale l’azione repressiva risulta senz’altro indebolita, e l’esposizione dei singoli magistrati più evidente”.

Cosa è cambiato da allora?
“Le morti di Falcone e di Borsellino hanno sortito l’effetto di sensibilizzare molto l’opinione pubblica riguardo ai temi della lotta alla mafia, effetto che a distanza di anni forse si va esaurendo purtroppo in larghi settori della società civile”.

Lei ha paura?
“No. Mai”.

Rafforzare la presenza dello Stato può costituire un mezzo per sconfiggere la mafia, abbattendo la convinzione, antica e radicata nella gente del sud, che lo Stato sia lontano e assente dal Mezzoggiorno d’Italia?
“Lo Stato in tutto il Mezzogiorno d’Italia ha il dovere di essere e di apparire credibile, di offrire alternative concrete ai giovani, di creare opportunità di sviluppo in maniera legale e trasparente. Senza tutto questo l’idea di una reale lotta alla mafia è assolutamente velleitaria”.

Che cos’è l’omertà?
“La rinuncia alla propria dignità imposta dalla paura”.

Che cos’è il senso di appartenenza?
“Qualcosa di cui tutti, soprattutto i giovani, hanno un estremo bisogno. Se le istituzioni, la cultura, la politica, la scuola e la società civile rinunciano ad esercitare la propria funzione e lasciano questo terreno alle organizzazioni criminali, la lotta alla mafia è senza speranza. I giovani hanno bisogno di modelli identificativi, e purtroppo, in alcune realtà, trovano solo quelli offerti dalle organizzazioni criminali”.

E l’onore?
“L’onore è l’idea che ciascuno ha di sé in relazione ad un sistema di valori. Se il sistema di valori non è condiviso, l’onore finisce con l’essere solo un malinteso”.

La mafia è un’organizzazione in crisi?
“Non direi che sia in crisi. Essa è in continua evoluzione, e nessuno può prevedere quali potranno essere le sue forme di adattamento alle novità proposte dal progresso sociale e tecnologico. Ma, come disse Falcone, probabilmente essa è un fenomeno umano che come tale ha un inizio e anche una fine”.

Qual è la Sua preoccupazione oggi?
“La mia preoccupazione è poter continuare a svolgere le funzioni inquirenti con strumenti sufficientemente adeguati alla complessità del fenomeno che si intende contrastare”.

Cosa consiglia ai giovani che leggeranno questa intervista?
“Ai giovani consiglio di non perdere mai la speranza. Il loro futuro se lo costruiscano loro, perché non devono aspettare nessuno. E consiglio anche di non delegare mai ad altri le proprie scelte”.

Cosa direbbe a Giovanni Falcone se fossi qui adesso?
“Gli chiederei di mettere ancora a disposizione le sue capacità, ma non ce ne sarebbe bisogno, so che lo farebbe. Inoltre, gli chiederei dei consigli”.

Qual è il Suo primo pensiero al mattino?
“Che le persone a me care stiano bene”.

E l’ultimo alla sera?
“Lo stesso”.

Le capita mai di mettere in dubbio le Sue certezze riguardo ad un caso su cui ha lavorato e di accorgersi che forse ha commesso un errore?
“Nel processo il dubbio è un elemento fondamentale. E’ uno strumento di lavoro. Attraverso la continua soluzione dei dubbi ci si avvicina alla verità”.

Esiste la Giustizia?
“Kelsen diceva che il singolo non può raggiungere mai la felicità individuale perché l’unica felicità possibile è quella collettiva. La felicità sociale si chiama “giustizia”, che non è qualcosa di già dato, ma qualcosa che bisogna costruire giorno per giorno. Questa tensione verso la giustiza caratterizza tutta la vicenda umana, senza questa idea di giustizia non può esistere la libertà, non può esistere la felicità, non può esistere il progresso”.

Si sente mai solo?
“Molto spesso. In fondo, lo siamo tutti quanti. Però, l’idea che al mondo ci siano tante persone oneste che perseguono le mie stesse finalità mi fa sentire meglio”.

Alla fine di questa intervista a noi sembra di capire soprattutto una cosa: coloro che ci sembrano limitati nella loro libertà, proprio a causa di una scelta professionale che inevitabilmente comporta delle attenzioni maggiori verso i propri gesti, verso le proprie parole e le proprie più banali decisioni quotidiane, sono forse gli uomini più liberi al mondo; perché, se da un lato, è vero che spesso devono girare sotto tutela, dall’altro, essi possono guardare a testa alta la luce del sole e non temere mai che quella luce ne riveli anche le ombre.

Forse dietro questa scelta c’è tanta rabbia, rabbia verso un mondo che non ha soddisfatto le nostre aspettative ideali, e più questi valori erano sentiti più forte essa sarà; ma anche tanta passione.

Sì, è una scelta d’amore fare il pubblico ministero.